Non si muove foglia che il sindacato non voglia. Sembra uno slogan di molti anni fa, ma qualcuno, nel governo, vorrebbe farlo tornare attuale. Non lo possiamo permettere. Perché nella pubblica amministrazione, centrale e periferica, non può venire meno il controllo sui conti, sull’organizzazione, sull’efficienza, sulla mobilità e sulla premialità dei dipendenti.
Non è ammissibile che in un momento in cui si parla di razionalizzazione dei costi della Pa e si sventola con toni trionfali la spending review, si pensi di proporre una legge delega che con i principi di revisione della spesa è in totale contrasto. Né si può camuffare dietro l’armonizzazione della disciplina dei rapporti di lavoro pubblico a quella del settore privato un furbesco ritorno al passato, una pericolosa restaurazione di antichi privilegi.
In tal senso, non servono grandi riforme o controriforme: basta inserire un emendamento al disegno di legge Fornero e rendere applicabile l’articolo 18 al pubblico impiego. Per quanto (non lo dico io ma il mio stesso successore nella sua lettera al Messaggero del 27 marzo) le norme «anti-fannulloni» esistono già, oltre ad applicarsi, con riferimento a soprannumero o eccedenze di personale rispetto alle esigenze funzionali e alla situazione finanziaria delle pubbliche amministrazioni, la mobilità obbligatoria.
Come si può pensare adesso, di chiedere a un partito, il Pdl, di maggioranza relativa, di cancellare una delle più rilevanti riforme avviate negli anni di governo? Ci si sarebbe aspettati che il governo Monti, così risolutamente impegnato sulla strada del risanamento e del rilancio, nel quadro di una stretta collaborazione con i partner europei e con le istituzioni dell’Unione, avrebbe orgogliosamente raccolto l’invito a dare attuazione concreta ad una riforma apprezzata senza riserve. Invece no. Tutt’altro. Mi chiedo: in un momento così delicato per la vita del nostro Paese, dopo le forti perplessità a livello internazionale sulla cosiddetta riforma Fornero, c’era proprio bisogno di fare il bis?
L’ipotesi di accordo con i sindacati che il ministro Patroni Griffi ha siglato nella notte tra il 3 e il 4 maggio si muove in una direzione diametralmente opposta a quanto ci chiede e si aspetta l’Europa. Ed è sbagliata fin dalla premessa.
Innanzitutto, si fa riferimento al superamento della logica dei «tagli lineari», che certamente nel caso del rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione non ha trovato spazio; in secondo luogo, si parla di creazione delle condizioni di «misurabilità, verificabilità e incentivazione della qualità dei servizi e delle funzioni pubbliche»: ottimo, se i contenuti che seguono questa premessa non smentissero i buoni propositi.
Non finisce qui. L’accordo che il ministro della Pubblica amministrazione vorrebbe presentare sotto forma di legge delega in Consiglio dei ministri si articola in 5 macro-aree, che spaziano dai sistemi di misurazione, valutazione e premialità nelle Pa alla formazione del personale, passando per il ruolo, le funzioni e la responsabilità della dirigenza pubblica. Ma c’è un punto che prevale su tutti: la definizione di un nuovo modello di relazioni sindacali. In altre parole: il blocco, la restaurazione, il ritorno al passato. Non si muove foglia che il sindacato non voglia.
Non solo: l’intervento sindacale nelle procedure di mobilità, così come faticosamente riformate con la legge di stabilità (ultimo atto del governo Berlusconi), rischia di restaurare lo status quo ante, rivelatosi paralizzante e inidoneo a conseguire un uso efficiente delle risorse di personale.
Sappiano gli italiani che fino alle riforme Brunetta non si è riusciti a spostare nessuno dei 6 milioni e 500mila dipendenti pubblici; nessuno è stato messo in cassa integrazione in ragione del fatto che la sua funzione non esistesse più e nessuno, di fatto, è mai stato licenziato.
Infine, dietro la suadente enunciazione di una «razionalizzazione e semplificazione dei sistemi di misurazione, valutazione e premialità», si nasconde in realtà il chiaro intento di smantellare il sistema delle fasce, cardine della riforma Brunetta nella materia della premialità.
Non mi si dica, quindi, che il percorso che il governo vuole compiere punta a estendere la riforma Brunetta: non è vero. Nel merito, è chiara la posizione del segretario del Pdl, Angelino Alfano, «la riforma Brunetta sulla pubblica amministrazione non si tocca», e del presidente Berlusconi, «voteremo solo ciò che ci convince».
Appunto, la controriforma della Pa non ci convince. Né tale controriforma era nel programma di governo che il presidente Monti ha presentato al Parlamento e su cui è stata votata la fiducia.
Mi aspettavo che in poco tempo si riuscisse a fare molto, come è avvenuto in tema di semplificazione. Invece no: si è totalmente invertita la rotta. Tutto sta tornando come prima e quanto si accinge a fare il governo ne è la controprova. Ne è una prova anche il ritrovato aumento delle assenze dei dipendenti pubblici nelle Pa: l’ultimo dato disponibile, aggiornato a febbraio 2012, ci dice che l’assenteismo è aumentato del 12,2%, contro una riduzione, a febbraio 2009, del 39,8%. Bei tempi.
Si rilegga, ministro Patroni Griffi, l’ipotesi di accordo che ha siglato la notte tra il 3 e il 4 maggio e, se non intendeva scrivere quello che poi ha effettivamente messo nero su bianco, la ritiri. Ammetta di aver ceduto, per qualche ora, al canto delle sirene dei sindacati, ma torni in sé, torni a lavorare con la competenza e l’equilibrio che l’hanno sempre contraddistinta. La gravità dell’irrimediabile passo indietro che con quell’accordo si rischia di compiere fa male a tutti, cittadini in primis.
E nuoce alla fiducia che una maggioranza straordinaria in Parlamento ha riposto nell’esecutivo tecnico: non può essere tradita da un oscuro e regressivo accordo sindacale o da una impaludante legge delega. L’opposizione, in quel caso, sarebbe totale. Leali al governo delle riforme sì, ma mai disponibili alle controriforme.
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