Ingroia fa scappare gli azionisti del «Fatto»

C'è troppo Ingroia nel Fatto. Troppa visibilità per il magistrato che ha intercettato il Quirinale e poi si è lanciato in politica. Troppe standing ovation per il Pm che ha lasciato sul più bello la delicatissima inchiesta sulla trattativa Stato-mafia ed è diventato il leader del movimento arancione. Così gli azionisti, alcuni, scalpitano e qualcuno ha deciso di vendere. Sì, all'orizzonte si profila un divorzio clamoroso nel partito giustizialista che fa capo a Marco Travaglio e al direttore Antonio Padellaro. La componente legata a ChiareLettere, dal nome della casa editrice che ha avuto molta fortuna negli ultimi anni e ha pubblicato libri aggressivi per documentare i tanti scandali italiani, ha deciso di sfilarsi. Il giornale sarebbe troppo appiattito sulle posizioni barricadere, con contorno di veterocomunismo, di Ingroia. Dunque, si va verso l'addio dell'azionista ChiareLettere che ha in portafoglio il 16,26 per cento del capitale.
Qualcosa era già trapelato ieri quando Italia Oggi aveva dato la notizia che i soci del Fatto erano in subbuglio. E qualcuno stava meditando di svincolarsi. Ma la spiegazione ufficiale - l'esigenza di far cassa - spiegava fino a un certo punto quel che sta accadendo dietro le quinte del grintoso quotidiano che negli ultimi tempi ha messo in pagina clamorosi scoop, costringendo Giuseppe Mussari a dimettersi dai vertici dell'Abi. I colpi giornalistici e le critiche rivolte dallo stesso Padellaro a Ingroia, con un editoriale netto fin dal titolo Meglio magistrato che candidato, evidentemente non hanno rassicurato l'area che fa capo a ChiareLettere, a sua volta è formata da un poker di soggetti: il gruppo Gems di Stefano Mauri; Lorenzo Fazio, anima di ChiareLettere; il banchiere Guido Roberto Vitale; l'editore di Telelombardia Sandro Parenzo.
Il quartetto sta pensando seriamente di vendere le proprie quote perché si ritiene incompatibile con la linea editoriale, schiacciata sulla progressione politica dell'ex pm. «Mi sta anche bene - spiega uno dei protagonisti della battaglia in corso, che però non vuole essere citato - che Ingroia tocchi tutti i santuari del potere, senza alcuna remora. Ma se poi capitalizza la vetrina mediatica andando a chiedere i nostri voti, allora c'è qualcosa che non mi torna. E non mi va nemmeno che il magistrato si sia circondato di veterani della più rigida tradizione comunista. Il nostro è un altro percorso». Così Il Fatto dovrebbe andare da una parte e ChiareLettere, che ironia della sorte ha pubblicato l'ultimo libro di Ingroia Io so, dall'altra. Diverso il discorso che riguarda l'editore Francesco Aliberti, titolare di un altro pacchetto importante, pari al 16,26 per cento del capitale. Per lui il disimpegno sarebbe legato solo a problemi finanziari e al bisogno di poter disporre di denaro cash.
«Diciamo - conferma enigmatico l'ex magistrato e scrittore di successo Bruno Tinti, che detiene l'8,13 delle azioni - che alcuni soci già l'anno scorso avevano espresso il desiderio di vendere. Ma ancora non l'hanno fatto. Sulle ragioni non voglio esprimermi, ma è chiaro che sono di natura economica». In realtà ci sarebbero motivazioni diverse e scelte diverse. In ogni caso l'operazione non si annuncia facile.

I soci, da Antonio Padellaro a Marco Travaglio e a Peter Gomez, direttore dell'edizione web, hanno il diritto di prelazione. E la struttura del quotidiano è quella di un fortino difficilmente espugnabile. Insomma, il Fatto rimarrà il Fatto.

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