Italia, l'ottavo oro dal taekwondo

Lui è l'intruso. È un cerchio rosso sulla foto della squadra più forte della storia dello sport. Christian Laettner stretto come una fetta di salame tra Magic Johnson e Michael Jordan. Il dodicesimo del Dream Team: undici campioni e lui. Unico umano in una squadra di Dei. Troppo umano. Vent'anni dopo (...)

(...) si porta quell'immagine nel taschino della memoria. Eccolo alle Olimpiadi, di nuovo. Parla, commenta, analizza. Fox tv l'ha portato ai Giochi per farlo parlare della nuova squadra dei sogni. Dai Christian, tu l'hai fatta l'Olimpiade, dicci com'è. Lui va, prima impacciato poi sciolto. Una voce sconosciuta per un nome che è un ricordo confuso: Laettner chi? L'uomo che è stato nel mito senza meritarlo. L'America lo conosceva come the Shot, il tiro: era il ragazzo che all'ultimo secondo della finale del campionato di basket universitario del 1992 fece il canestro decisivo. Giocava a Duke e gli Stati Uniti lo portarono ai Giochi di Barcellona per salvarsi la coscienza. Christian era la foglia di fico: l'unico dilettante tra i professionisti multimilionari, il solo ricordo di quello che era stata la pallacanestro olimpica fino ad allora. Scelsero lui e non Shaquille O'Neal. Shaq sarebbe diventato uno dei giocatori più mediatici di sempre. Christian sarebbe affogato nell'anonimato.
Giocò quell'Olimpiade: pochi minuti e sempre a risultato acquisito. Lo mettevano dentro quando Jordan, Johnson, Bird e gli altri si mettevano a distanza di sicurezza. Venti, venticinque, trenta punti di margine: dentro ragazzo. E Christian entrava, come una comparsa che si conquista una scena in più sul set. Oro per lui, come per gli altri: oro con il Dream Team senza essere uno da Dream Team. Lo sapeva, o forse no. Dopo l'oro l'arrivo nel campionato Nba: alla fine delle Olimpiadi c'era il draft, il sorteggio dei giocatori del college che entravano tra i professionisti. Lui fu preso dai Minnesota Timberwolves, cominciò la sua vita da mediano del basket: nel gruppone dei giocatori senza gloria, pagato abbastanza da sentirsi felice, ma ignorato abbastanza dai media da sentirsi inutile. Ma come? Lui era nel Dream Team, lui era stato il braccio sinistro della squadra archetipo della perfezione dello sport. Niente, Chris. La sua carriera furono quattordici anni di poco, divisi in una manciata di squadre. Ogni volta che si parlava di lui era per quel tiro da universitario. Laettner, the Shot, solo quello. Il professionismo lo rese ricco, non celebre. Deve aver cercato per tutti quegli anni di sentirsi degno dei campioni con cui era stato oro olimpico. Lui c'era, a Barcellona, gli altri no: vicino all'idea del Dream Team, lontano dalla realtà. Poi c'era Shaquille che diventava famoso, che schiacciava in faccia a tutti. Chris s'infilò pure in una storia di doping: squalificato per cinque partite, sbattuto in panchina per il resto della sua carriera. Finì nel 2005, senza che qualcuno avesse nostalgia di lui.
Prese i soldi che aveva e cominciò la vita da imprenditore. Bene: un progetto immobiliare in North Carolina, all'università di Duke, dove costruì alloggi di lusso bonificando una grande fabbrica di tabacco in dismissione. Con lui, in società, c'era un ex compagno di squadra universitario, Brian Davis. Fecero i businessmen brillanti: le case si vendevano, i soldi arrivavano. Laettner era the Shot, almeno. Pensò: compriamoci una squadra di Nba. Chiamò un po' di amici e confidò il progetto: finanziatemi e ci prendiamo i Memphis Grizzlies. Scottie Pippen, suo compagno nel Dream Team, gli sganciò 2,5 milioni di dollari, il giocatore di football Shawne Merriman 3,7 milioni. I Grizzlies andarono ad altri. Sconfitto Laettner, come un tiro che invece di entrare prende il ferro ed esce. È lì che puoi perdere. Arrivò il calo: gli immobili che prima si vendevano alla grande, poi cominciarono a restare invenduti. S'erano allargati troppo i due amici: avevano investito a Philadelphia, Washington, Pittsburgh. Una montagna di debiti con le banche, oltre ai soldi che dovevano agli amici che avevano creduto in loro. Non restituiva, Christian. I guai: citato in tribunale una, due, tre volte. Pippen che chiede i suoi soldi, Merriman anche, gli altri creditori pure. I giudici convocavano l'ex giocatore e gli dicevano: o paghi o fallisci. Trenta milioni di dollari di buco: crac. Era il 2008 e Laettner disse: è colpa della crisi, non mia. A Pippen alla fine ritornarono indietro la metà dei soldi, a Merriman pure. Sfiorò anche il carcere, Christian. L'intruso diventato reietto. Scaricato dal suo mondo perché non si disonorano le promesse: hai voluto i soldi? Devi ridarli. Lo sport americano è grande e piccolo. A quella congrega di star non andava che Laettner avesse un patrimonio personale che gli permetteva di rimborsare. Erano le sue società in default, non lui. Allora perché? Christian tagliato fuori, come indegno. Nel documentario che celebra il Dream Team, mandato in onda qualche mese fa, lui non viene citato neanche una volta. Basta? No. È l'unico di quella squadra che non è nella Hall of fame del basket. Undici entrati singolarmente, lui arrivato solo quando hanno deciso di mettere in bacheca anche quella foto dove lui sta tra Jordan e Johnson. L'uomo ai margini della gloria è finito anche ai margini della vita. Per tirare su qualche soldo e tornare a farsi vedere s'è messo a giocare in una squadra di un campionato minore. Il reduce di se stesso che fa il verso a quello che è stato. Nel campo della Florida dove ha giocato per sei partite lo annunciavano così: «Uno dei dodici del Dream Team '92». Già. Essere parte di un sogno è la tua dannazione. L'America trafigge, l'America solleva. L'hanno visto quelli di Fox, in quei palasport di serie B. L'hanno chiamato: mister Laettner, vuole commentare le partite del nuovo Dream Team a Londra 2012?
Eccolo qui, adesso. Come va? Ti va di raccontare? «No, ora voglio solo parlare degli altri». Non vuol essere l'Andy Kaufman dello sport: l'anchor che ha ispirato «Man on the moon», ripudiato di successo che ha passato la vita a inseguire l'approvazione del pubblico. Basta. Christian ha scelto di parlare di pallacanestro, non di sé. E parlando si vuole riprendere il rispetto. I soldi incassati da quelle partite di serie B sono finiti a rimborsare parte dei debiti. Ora è un volto: guardatemi. Il cerchio rosso non serve, perché non deve sentirsi più uno come Jordan o come Johnson. Invisibile, ma visibile. Andare in tv l'ha sdoganato: l'Olimpiade ha fatto riparlare l'America di the Shot. La salvezza nel territorio della sua fortuna diventata sfortuna e ritornata fortuna. Resta intruso nel sogno, ma non nella realtà. Con Fox è arrivata un'altra chiamata: quella dei Fort Wayne Mad Ants, in Indiana. È una squadra che gioca nella Development League, il campionato di quelli che non riescono a entrare nella Nba.

L'hanno contattato per fare il vice allenatore. Insegna come si fa a giocare sapendo di non essere abbastanza bravi da stare con i migliori. È il suo destino, deve solo raccontarlo.

Casadei Lucchi a pagina 30

Bagatta, Eleni e Signori nello Sport

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