«Come se capir la crisi voglia dire che la crisi è risolta». Aveva proprio ragione, Gaber: anche se abbiamo ormai tutti assimilato il lessico dell'emergenza economica, siamo ben lontani dall'esserne usciti. Dentro fino al collo, semmai, in quel pantano che risucchia speranze e alimenta sfiducia, diffidenza e pessimismo. Siamo lì, nella nostra parabola discendente resa nitida dal primo rapporto in cui il Cnel e l'Istat provano ad affrancarsi dalla dittatura del Pil, sostituendolo con un nuovo benchmark: si chiama Bes, un misuratore del «Benessere equo e sostenibile» ottenuto analizzando 12 campi d'azione (dal lavoro all'ambiente, dalle relazioni sociali all'economia, ecc.) e 134 «termometri».
Cambiano gli acronimi, ma in fondo il risultato non è poi molto diverso rispetto a ciò che da tempo ci racconta il traballante andamento del nostro prodotto interno lordo, sceso del 2,4% l'anno scorso e già azzoppato da una contrazione dell'1% acquisita nel 2013. Più che di benessere, sarebbe infatti meglio parlare di malessere. Diffuso e crescente, da traghettare verso la sponda delle istituzioni, da rovesciare addosso, come un rigurgito, ai partiti politici. Tutti bocciati senza riserve, inchiodati a un 2,3 di gradimento che su una scala da 0 a 10 equivale a un verdetto senza possibilità d'appello. Ma è un pollice verso generalizzato, mostrato anche al Parlamento (3,6), alle amministrazioni locali (4) e alla giustizia (4,4). Insufficienze gravi da cui si salvano solo i vigili del fuoco, che strappano un ottimo 8,1, e le forze dell'ordine, con un giudizio quasi discreto (6,5).
Voti da totale disaffezione, così come quei voti di protesta usciti dalle urne elettorali, che dimostrano quanto la crisi e le mancate risposte alla crisi abbiano scavato un solco profondo tra i cittadini e il Palazzo. Perché la recessione morde sul serio. Lo sanno bene quei 6,7 milioni di connazionali che nel 2011 hanno accusato gravi difficoltà economiche, 2,5 milioni in più se confrontati a un anno prima. Cifre sicuramente peggiorate durante il 2012, anno del rigore montiano, periodo in cui le cronache hanno sempre più spesso indugiato nel racconto sui carrelli della spesa semi-vuoti e sull'impossibilità di molti stipendi di tenere il passo con il caro-vita.
Più poveri lo siamo tutti, con il potere d'acquisto dimagrito del 5% dall'inizio della crisi. Ma la recessione ha soprattutto aggravato le disuguaglianze: nel 2011 il 20% più ricco della popolazione ha ricevuto un reddito di 5,6 volte superiore a quello del quinto più povero. Così - è banale dirlo - quel che conta, alla fine, è in che misura il nostro reddito sia stato in grado di ammortizzare quella perdita. Il rapporto spiega che gli italiani hanno cercato di non abbassare il loro tenore di vita, visto che i consumi sono calati «appena» dell'1%. Vero, anche se c'è stato un prezzo da pagare: o i risparmi sono stati intaccati, oppure è scesa la quota di risparmio, con la propensione a mettere da parte risorse calata dal 15,5% del 2007 al 12% del 2011, fino all'11,5% del secondo trimestre 2012. Un ex popolo di formiche. Ma la spia di conti domestici che non tornano è un'altra, quella che rimanda alla crescita dei debiti, anche per importi bassi: nei primi 9 mesi del 2012 la quota delle famiglie indebitate, sostanzialmente stabile tra il 2008 e il 2011, è balzata dal 2,3% al 6,5%.
Un fenomeno che rischia di allargare le smagliature già presenti nella rete di protezione e solidarietà finora garantita dalla famiglia. Soprattutto a causa dell'alta disoccupazione, in particolare quella giovanile.
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