nostro inviato a Bergamo
Il primo grido è per Bossi. La prima voce che si sente è la sua, in un filmato dellultima Pontida. E alla fine lUmberto cè, sul palco dellorgoglio padano. Un fatto scontato in fondo. Ma in mezzo alla bufera che si è abbattuta sulla Lega, nulla è più certo. Complice quella che un deputato definisce «la testa dura delluomo, che fa sempre a modo suo e non si consulta con nessuno». Lui cè. E al suo popolo propone un giuramento per il futuro: «Pace per sempre fra Maroni, Bossi e Calderoli». Basta liti, ora «si riparte a testa bassa contro il nemico di sempre, il centralismo canaglia di Roma». Non basta e Bossi lo sa, e infatti va oltre, là dove il popolo vuole che arrivi per celebrarlo ancora: i figli fuori dal partito, è il mea culpa del Senatùr. Ammette: «Sbagliai, loro sono cresciuti alle nostre feste e non vedevano lora di entrare in Lega, ma io dovevo mandarli via». E «chiede scusa per i danni fatti da chi porta il mio cognome». Ora si cambia: «Fuori i parenti di primo e di secondo grado». Raccoglie anche fischi il Senatùr, perché la storia del complotto ai danni della sua famiglia non convince nessuno, quando elenca le stranezze della vicenda della cassa la folla grugnisce, e il mugugno si fa feroce quando dice che «il cerchio magico non esiste, è uninvenzione dei giornalisti farabutti». E però è questo, il senso della serata. È il ritorno alle origini e al futuro.
Quando ha deciso di venire a Bergamo, alle perplessità dei suoi in via Bellerio Bossi ha risposto così: «Io la Lega lho fatta e non voglio distruggerla». E prima di salire con lui sul palco, a Maroni ha detto: va bene la pulizia, ma devi evitare la caccia alle streghe. È la guerra fratricida il rischio peggiore che vede il capo. E non ha torto, se è vero che ieri i maroniani sono arrivati assetati di sangue, ma anche i cerchisti hanno marcato rumorosa presenza. Che la base sia spaccata lo si sente subito. Per primo parla Roberto Maroni. La platea si divide. Chi invoca Bossi, chi fischia, chi grida «Lega-Lega». Che il Carroccio rischi una deriva giacobina è altrettanto chiaro, a dirlo bastano i decibel altissimi quando Maroni cita Renzo, Belsito, Rosi Mauro. Su di loro i fischi sono interminabili, così come gli applausi quando Bobo annuncia che giovedì prossimo il consiglio federale espellerà il tesoriere indagato, e avverte che «se la Rosi non si è dimessa, ci penserà la Lega a dimetterla».
Maroni offre il sangue che i suoi gli chiedono, altro che scope, servono ghigliottine qui. E però poi parla di unità, ed ecco il punto. Il fatto è che i due leader si tengono. Il giuramento con bacio alla bandiera è la rappresentazione plastica di un partito che ha bisogno di entrambi. Bobo che guida la pulizia, il rinnovamento, Umberto che tiene unite le anime in guerra. E così eccolo, labbraccio. Bobo che dice di Umberto: «Lui non centra niente, ne sono certo, lo conosco da 40 anni. Ma ha fatto un gesto di grandissima dignità: si è dimesso». Umberto che sa che oggi il solo modo per dare continuità al progetto è lasciare il timone allunico leader acclamato dal popolo, quel Bobo che già a Pontida la faceva da padrone, «Maroni premier» dicevano gli striscioni sul pratone.
Una mossa non di debolezza ma di forza quella del capo, spiegano i suoi. «Prima ha fatto un passo indietro, poi lo ha fatto fare a Renzo, infine ha dato linvestitura a Maroni, con un doppio risultato: accontentare la sete di sangue della base, e al contempo ritagliarsi un ruolo di supremazia morale». Insomma resistere alla bufera, restare nel ruolo di «grande saggio», per ripartire, garantendo lunità del partito. Bossi lo ha detto subito dopo essersi dimesso: «Adesso quello che posso fare è evitare che i dirigenti litighino». I militanti partiti da tutto il Nord armati di scopa, erano venuti a Bergamo come al Colosseo. Si aspettavano un Bobo che dal palco citava i nomi dei «cattivi», ed erano pronti a girare il pollice. Pollice in alto per coloro da osannare come i salvatori della Lega, primo fra tutti lo stesso Bobo. Pollice verso per quelli che la base pretende di vedere espulsi, «Bossi e Maroni in Padania quei quattro coglioni in Tanzania» diceva uno striscione sotto il palco. Pollice sospeso a metà per Roberto Cota e Roberto Calderoli, allurlo di: dicano una volta per tutte da che parte stanno. «Basta con i Ponzio Pilato», era il coro del lombardo-veneto in marcia sulla serata dell«orgoglio padano».
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