L'Europa ci detta la (sua) manovra

Ma non è quella che serve: per la ripresa e il lavoro vanno tagliate le tasse e ridotti i rischi per gli imprenditori

L'Europa ci detta la (sua) manovra

Il presidente del consiglio Enrico Letta ha dichiarato che le misure che verranno prese nelle prossime settimane avranno come base politico-giuridica le sei raccomandazioni che la Commissione Ue ha rivolto al governo nella chiusura della procedura di infrazione.
Capisco che un Paese indebitato deve stare al gioco. Ma di queste sei ricette tre sono esercizi retorici interpretabili in diversi modi: riformare la pubblica amministrazione; rendere più efficaci e produttive le banche; dare maggiore concorrenza nel mercato dei servizi. Un'altra è un'aberrante ricetta di natura dirigista e origine neo marxista, cioè che bisogna spostare la tassazione dal lavoro e dall'impresa alla proprietà e al consumo. Va bene per l'impresa, non per il resto. Il Trattato dell'Unione europea fa esplicito riferimento a una economia sociale di mercato altamente competitiva. E la base sociale del mercato è costituita dalla diffusione della proprietà, affinché si sviluppi una società basata sui risparmiatori e imprenditori. Tassare immobili e consumi privati per alimentare quelli pubblici è l'esatto contrario.
Quindi restano due sole regole, che però nel governo attuale stentano ad emergere a causa del dominio improprio della vecchia cultura catto-comunista. Una è quella della liberalizzazione del mercato del lavoro, su cui con il governo Monti si sono fatti orridi passi indietro, generando economia sommersa e disoccupazione. Incombono scelte chiare per i contratti aziendali di produttività, specie dopo il picchettaggio di ieri alla Fiat di Pomigliano d'Arco. L'ultima cosa che ci chiede l'Europa è di mantenerci in un deficit inferiore al 3% e di ridurre il rapporto debito Pil. Il che è sensato. Però loro non ci dicono «come». Ed è sul «come» che si basa la ripresa.
Quando c'è la recessione è difficile ridurre il deficit perché le entrate, a parità di aliquote, sono basse mentre le spese per cassa integrazione normale e in deroga si ampliano. Inoltre il nostro rapporto debito-Pil, che con il governo Berlusconi era al 120%, con i risanatori è balzato al 130% e lo sta superando, perché il Pil è sceso e la sanità e gli enti locali hanno fatto debiti occulti che lo Stato si sta accollando. Ovviamente ciò premia la sinistra nelle elezioni locali. Ma ci crea problemi nell'agenda per la crescita. In questa ci vogliono minori aliquote fiscali e minori regolamentazioni tributarie e contributive, non lo spostamento del peso fiscale dalla spalla sinistra alla destra. E quindi minori spese. E attenzione anche al groviera degli esoneri, che non incentivano niente se le aliquote ordinarie aumentano.
Se aumenta l'Iva, perché commercianti e imprese di consumo dovrebbero assumere altri giovani? A che serve un abbattimento fiscale sugli investimenti edilizi se i proprietari di immobili sono sovratassati? Si è accorto il governo che ora per l'investimento in Italia nelle valutazioni internazionali e dei nostri commercialisti è emerso il «rischio giudiziario», cioè quello derivante dal modo come la magistratura interpreta leggi che lasciano troppo potere discrezionale?
A Pomigliano d'Arco la polizia ha evitato che i blocchi indetti dalla Cgil ai cancelli impedissero il lavoro straordinario richiesto di sabato da Fiat in base al contratto aziendale che, però, è ancora oggetto di opposte sentenze. Ilva ha subito un maxisequestro cautelare di acciaio e i proprietari quello del patrimonio. Anche Nomura (grande banca giapponese che compra nostro debito pubblico) ha un sequestro cautelare: per un prestito sotto forma di derivato al Monte dei Paschi.

E infrazioni fiscali e societarie altrove punite con ammende da noi diventano reati con alte pene detentive per amministratori e soci di controllo delle società, che «non possono non sapere». Così, perché investire? La risposta non la vedo nei sei punti di Bruxelles.

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