Ci ha messo oltre un mese ma alla fine, erano le 19.30 di ieri, Pierluigi Bersani ha capito, buon ultimo, che il Pd e la sinistra non avevano vinto le elezioni. E che quindi non poteva governare il Paese a suo piacimento. C'è qualche cosa di tenero e tragico al tempo stesso nella cieca ostinazione del segretario, un dramma umano che l'ha portato a mentire - alcuni dicono ricattare - persino al presidente della Repubblica nell'ultimo drammatico incontro di ieri sera: ce la posso fare, o va a me l'incarico di formare il nuovo governo, avrebbe detto il segretario, o il Pd non sosterrà nessun altro candidato, tecnico o non tecnico. Non erano vere entrambe le cose, e Napolitano ci ha messo pochi minuti a smascherare il bluff. In realtà Bersani non ha i numeri per governare, né la solidarietà di tutto il suo partito per far saltare il banco e addossarsi la responsabilità di elezioni immediate.
Dopo avere fatto perdere nelle urne un Pd già dato per super vincitore, ora Bersani sta riuscendo nell'impresa di spaccare il suo partito. Napolitano, come gesto di compassione, non ha staccato al segretario la spina del polmone artificiale che lo tiene in vita. Con un giro di parole senza precedenti («esito non risolutivo») non lo ha bocciato né promosso. Lo ha congelato, togliendogli l'incarico di fatto ma non formalmente. Oggi il capo dello Stato farà un giro di consultazioni e in serata deciderà se revocare definitivamente il mandato o assegnarne uno nuovo ad altra persona.
Il paradosso è che il destino di Bersani è ora nelle mani di Berlusconi e del Pdl. I quali, per dare via libera al segretario, porranno oggi al Quirinale le stesse condizioni inutilmente poste nei giorni scorsi al Pd: o governo insieme e nuovo capo dello Stato condiviso, oppure governo di sinistra e capo dello Stato indicato dal centrodestra. Ammesso che Napolitano sia d'accordo, o Bersani fa una veloce retromarcia e si siede a un tavolo con Berlusconi, oppure ciao ciao segretario. Che poi vuole dire ciao ciao Pd, almeno così come lo conosciamo oggi.
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