L'immigrato eroe dalla gloria alla galera

Era la storia perfetta, la madre di tutte le storie, con il suo condensato di liete ripercussioni sociali, paradigma positivo dell'integrazione multietnica e della tolleranza reciproca. Sì, nemmeno un mese fa, a metà ottobre, un marocchino clandestino era sbucato dal mondo oscuro e parallelo, in cui vive assieme a tanti altri fantasmi d'Italia, per salire improvvisamente sul piedestallo dell'esempio nazionale.
Tutto in una notte, tutto in pochi attimi. Quella volta, Abderrahim Adoiou, 48 anni, uno dei nuovi italiani non propriamente in regola - già due detenzioni a suo carico -, si era trovato nel posto giusto al momento giusto, trasformandosi da ultimo degli indesiderati in angelo salvatore: nella zona di San Benedetto dei Marsi, profondo Abruzzo, aveva visto un'auto finire a piombo in un canale di irrigazione. Non ci aveva pensato un secondo solo, il suo istinto l'aveva subito spinto a tuffarsi in acqua per aiutare i poveretti dentro la macchina. Gli era riuscito un capolavoro, certo il capolavoro più alto e più degno della sua esistenza disperata: aveva salvato un'intera famiglia, compresa una piccina di cinque anni. Nel timore d'essere scoperto, era poi velocemente rientrato nel suo mondo di penombra e di mistero. Il gesto, però, non poteva sfumare nel silenzio. L'indomani, diventato a furore di popolo il modello ideale, contro il ciarpame dei pregiudizi e delle pulsioni becere, erano andati a ripescare l'immigrato e l'avevano piazzato sul monumento dell'umanità migliore. Incalzata dall'opinione pubblica, la ministressa Cancellieri si era sentita in dovere di creare la lodevole eccezione, «per il coraggio, l'elevato senso civico e lo spirito di appartenenza alla comunità dimostrati», annullando subito i due decreti di espulsione che pendevano sulla sua testa, quindi concedendo un permesso di soggiorno provvisorio, con la promessa solenne di avere presto quello effettivo di sei mesi. Era fatta: a 48 anni il generoso Abderrahim meritava la patente di italiano, ascendente eroe.
Il lieto fine non era però proprio la fine. La fine finale e definitiva, a tre settimane soltanto dal memorabile tuffo, si presenta molto diversa, per niente eroica e decisamente disarmante: l'eroe è in manette. L'hanno preso davanti alla stazione di Avezzano, durante un'operazione antidroga. Spacciava. Perquisita anche casa sua, dove vive con il fratello, è saltata fuori altra roba. E nonostante il fratello abbia cercato di addossarsi tutte le colpe, la bella storia, la storia perfetta, la madre di tutte le storie, è andata penosamente in mille pezzi, lasciando sorpresa e sbigottita l'intera opinione pubblica.
Una cosa che dovremmo evitare tutti di fare adesso è darci degli stupidi, degli ingenui, dei babbei in balìa di questi furbastri d'importazione. Un uomo che si getta nel canale per salvare una famiglia resta in quel momento un uomo da premiare e da portare ad esempio. Punto. Nessun rimorso, nessun rossore. Se poi l'altro uomo che sta dentro lo stesso uomo sceglie di rifiutare l'apertura di credito della società Italia, dimostrando di disprezzare la nostra riconoscenza tangibile, il problema è suo. Arrivato a un centimetro dalla svolta, tra l'altro con la concreta prospettiva di trovare a giorni un vero posto di lavoro, Abderrahim ha deciso comunque di tirare dritto. Delle sue scelte, deve risponderne: perché non è minorato e perché non è diverso dagli altri cittadini italiani, come ricordiamo sempre rivendicando trattamenti civili e dignitosi per i nuovi arrivati.
Quanto alla nostra sorpresa indignata, dobbiamo soffocarla sul nascere. Abbiamo creduto che Abderrahim fosse un eroe, e difatti resta un eroe, almeno per una sera.

Ma in tutti gli uomini, per quanto eroici, bene e male coabitano stabilmente, ciascuno prevalendo a turno sull'altro. I migliori istinti del salvatore, tre settimane dopo, hanno ceduto il posto agli istinti dello spacciatore. Questa è la vita. S'era detto eroe, non santo.

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