L'impresa del tonno che affoga nei cavilli

La capitaneria di Bari sequestra un carico di pesce, ma per quella di Vibo è tutto ok. Mentre loro discutono, 150 operai perdono il lavoro

L'impresa del tonno che affoga nei cavilli

«Dalla mafia con la pistola ti difendono le forze dell'ordine. E dalla mafia con la penna, la mala burocrazia, chi ti difende?». Ha il dente avvelenato, Pippo Callipo. E non potrebbe essere altrimenti. Già presidente regionale di Confindustria prima del tentato approdo alla politica che conta tra le fila del centrosinistra, il patron dell'omonima azienda - famosa per il suo tonno esportato nel mondo intero - ha dovuto sbattere in cassa integrazione quasi tutti i 190 dipendenti dello stabilimento di Maierato, in provincia di Vibo Valentia. Profondo sud, terra cuore di 'ndrangheta dove però non mancano (e sono tanti) gli esempi virtuosi. Anche se, per farsi largo, a volte devono sopravvivere allo Stato, più che all'Onorata Società. Quanto capitato alla «Callipo group» ne è la dimostrazione: il blocco alla produzione - il primo in assoluto nella storia d'un'impresa fondata nel 1913 - non è frutto di richieste estorsive o attentati dinamitardi, ma della diversa interpretazione della medesima legge da parte di chi le norme dovrebbe applicarle uniformemente in tutta Italia. Invece no: le cose vanno diversamente. Ed a pagar dazio, stritolati nella morsa della burocrazia italica, stavolta sono decine di lavoratori. Il fatto. Lo racconta lo stesso Callipo. «Da 40 anni - dice - riceviamo tonno congelato alla rinfusa con nave frigo a Taranto, per quantitativi minimi di circa 800 tonnellate a partita, sottoposti a regolari controlli da parte degli enti preposti. Da sempre una parte del tonno congelato, una volta scaricato, arriva direttamente nei nostri depositi di Maierato, mentre il resto finisce nei magazzini frigorifero a Bari». E proprio a Bari, a ridosso del Natale, il diavolo ci ha messo la coda: la Guardia Costiera sottopone a sequestro amministrativo 484 tonnellate di yellowfin destinato allo stabilimento calabrese, dove era stato già recapitato il resto del carico. I sigilli scattano per problemi di etichettatura, che non consentirebbero la verifica della tracciabilità. Ma i controlli effettuati dalla Guardia Costiera di Vibo Valentia sullo stock giunto in Calabria danno esito opposto: nessuna anomalia, carte in regola. Parte allora l'istanza di dissequestro. Il responso sembra scontato: ci si aspetta che nel giro di un paio di giorni, chiarito il contrasto tra i guardacoste adriatici ed i loro colleghi tirrenici, il pescato (del valore di quasi cinque milioni di euro) venga restituito ai suoi proprietari. Al contrario, passano le settimane. Invano. Alla fine, Callipo è costretto alla resa: «Dopo cento anni di storia che ha dato lustro alla Calabria e dignità sociale a centinaia di lavoratori», annuncia deluso, «non possiamo far altro che fermarci». Turni ridotti all'osso, per mancanza di materia prima, e Cig per 150 operai. Scoppiato il caso, in coda ad un mese di silenzi, d'improvviso sabato scorso la situazione s'è miracolosamente sbloccata: la Capitaneria di Porto barese ha proceduto alla restituzione della merce. Ma non basterà. "Questo tardivo ravvedimento - ha fatto sapere ieri l'azienda - non consentirà di evitare il ricorso alla cassa integrazione: tecnicamente non è possibile rimettere in piedi in tempi rapidi la produzione".

Così, per qualche tempo, lavoratori a spasso, con disagi per tutti, a spese dello Stato (sociale) italiano. «Ma io - garantisce Callipo - resto e lotterò, in tutti i modi e con ogni mezzo, con chi ha voglia di far cambiare questo sistema». Quello che dichiara guerra alle cosche e poi uccide con la penna.

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