Roma - Vista la sorte toccata alla seconda carica dello Stato - strigliato in malo modo dalla giovane vicesegretaria reggente del Pd che nei week end si occupa di governare il Friuli-Venezia Giulia -, può considerarsi benedetta dalla sorte la ministro dell'Istruzione, Stefania Giannini, ultima in ordine di tempo a finire sotto le rotaie del treno in corsa nella notte. La sua flebile voce, «Renzi non abbia fretta, sul Senato è necessario qualche momento di riflessione e maturazione in più», s'è udita appena, sommersa dal fragore della locomotiva che in un'ora e mezzo di Consiglio dei ministri, all'unanimità, ha licenziato pure la pratica della soppressione del Senato. Nonché del Cnel: «Ma è solo un antipasto», s'è giustificato il famelico premier. Rammaricato perché «per qualche settimana gli appuntamenti subiscono una severa frenata: domani sarò a Londra, mercoledì a Bruxelles. Poi da giovedì torno a tempo pieno...». Questo il ruolino della marcia trionfale spiegato (senza slide) ai cronisti: «Il Def lo presentiamo tra martedì e mercoledì della prossima settimana, i decreti e le misure normative per l'operazione 80 euro in quella successiva, entro fine aprile la riforma della Pa. Così faremo un'altra conferenza stampa con slide, pesciolini e televendite...».
Matteo Renzi ci gioca, ma la posta delle sue scommesse s'alza di piatto in piatto senza che arrivi mai l'ora di calar giù le carte. I suoi messaggi continuano a martellare chiunque osi mettersi di traverso, com'è capitato al povero Pietro Grasso, ieri lasciato solo dal Quirinale a dover fronteggiare la marea montante. «Sono e resto super partes, del partito dei Davide contro Golia»: più che difeso s'è arreso il numero uno di un Palazzo che dalla prossima legislatura sarà preso dai «barbari» delle Province (anzi, delle Regioni e dei Comuni, visto che manco quelle ci sono più), come accadde con Romolo Augustolo, quando i Visigoti erano già padroni del campo. Ma se Renzi usa più bastone che carota con i «benaltristi», minoranza conservatrice che rema contro, la sua prosa (e il nervosismo) preludono a ben altre minacce, che il fido Giachetti mette in chiaro: «Se le riforme non passano si va a voto anticipato». Il premier lo dice in altro modo, rinnovando il patto d'intenti con Berlusconi, consapevole che solo tenendo fede a esso può spuntarla e buttare napalm sulla giungla parlamentare che lo attende. In particolare annidata nel suo(?) partito, le cui resistenze ispirano a Renzi un «caldo» invito a superarle: «Voglio vedere se davvero non lo votano, provo curiosità...». Eppure il fronte interno alle commissioni che presto si troveranno ad affrontare il testo messo a punto dal ministro Boschi s'allarga di ora in ora, e sia in Scelta civica che nel Ncd sono in molti a immaginare assenze «ad hoc» nel momento della verità. «I nomi e i cognomi, visto che si vota con il palese, ve li fornirò solo allora», minaccia ancora Matteo, sempre più simile, nell'ansia del rischio, al «bimbo-minchia» impersonato da Crozza, quello che «se fallisco sono pronto a fare altro, o riforme o faranno a meno di me, vado a casa io, ma anche chi le ha fatte fallire». Davanti al Vietnam del percorso parlamentare il premier fa mostra di sicurezza e noncuranza, memore che la scommessa politica potrebbe essere a costo zero, cioè perfetta: se riesce è un mago, se non riesce è un mago bloccato dalla Casta cattiva. Che sarà additata al popolo, visto che sta con Lui, «e siamo la maggioranza».
L'arma delle elezioni sempre in tasca - e difatti un pensierino va a Grillo, «che sta' a rosicà». Come diceva il poeta, l'importante è andare. Anzi, correre: «Che è una necessità per il Paese, non il tratto caratteriale di una persona disturbata». Preghiamo il Signore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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