Roma - Game over, tempo scaduto. Dopo aver consultato Club Alpino e Confagricoltura, stasera Pier Luigi Bersani salirà sul Colle per sparare le sue ultime cartucce. «Valuterò insieme al capo dello Stato - racconta - e non ho diktat da fare». Sembra quasi una resa: e in effetti il pre-incaricato non sembra proprio in grado di fare la voce grossa, perché i conti non tornano. Lassù troverà un presidente disposto all'ascolto, al ragionamento e pure alla comprensione, ma non certo a timbrare un salto nel buio. Niente numeri, niente governo.
E niente proroghe. Con lo spread a 350, Moody's in agguato e il governo Monti in liquefazione, l'Italia non può aspettare ancora: quando arriverà, il segretario del Pd dovrà portare una risposta. È riuscito a trovare una maggioranza certa? Ha stretto degli accordi alle luce del sole per qualche altra soluzione parlamentare creativa, come la non sfiducia, l'astensione o l'uscita dall'aula? No? Allora grazie, si accomodi, la stecca passa un altro, magari a quella «figura istituzionale di alto profilo» a cui nessuno può dire di no. Forse nemmeno i grillini, stando almeno alle parole di Vito Crimi, prima che come al solito le ritrattasse: «Se Napolitano fa un altro nome, estraneo ai partiti, è tutta un'altra storia». Giuliano Urbani, tessera numero due, butta lì un'ipotesi: Fabrizio Barca.
Vedremo come il presidente riuscirà a risolvere il rebus e mettere d'accordo almeno due delle tre minoranze. Prima però deve tirare le somme sul tentativo in corso. Si era sparsa la voce che il leader del Pd volesse prendersi altri giorni per far maturare la sua strategia del doppio cerchio: le riforme con tutti, il governo con pochi. Lo schema prevede che il centrodestra favorisca il decollo di Bersani in cambio della presidenza della nuova Costituente e di un'intesa per il Quirinale. Ma il Pdl non si fida e Napolitano non concederà tempi supplementari. Anzi, vuole vedere «le carte».
Il capo dello Stato infatti non avrebbe nulla in contrario a un governo di minoranza o a geometria variabile. È già accaduto in passato, può succedere ancora: siamo in emergenza, non possiamo stare troppo a sottilizzare. Però, spiegano sul Colle, per dare via libera servono «patti politici chiari», il giochetto delle presenze-assenze va regolato con una precisione matematica e notarile.
Questa la rotta indicata dal presidente della Repubblica, tracciata su due precedenti specifici. Il primo è quello citato dallo stesso Napolitano venerdì scorso dopo le consultazioni, che risale al 1998. Dopo la caduta di Romano Prodi, Scalfaro conferì un pre-incarico al premier uscente che cercò inutilmente di rimontare in sella per poi mestamente rinunciare. Toccò allora a Massimo D'Alema. Prima però di mandarlo alle Camere, Scalfaro aspettò che Cossiga e Mastella uscissero dal Ccd e formassero un gruppo autonomo, dichiarando di appoggiare D'Alema. E nel 2006 fu Napolitano appena eletto a ingaggiare un braccio di ferro con Prodi. Il Prof per insediarsi dovette dimostrare di avere una maggioranza, seppure esile, senza senatori a vita.
La storia si ripete: uscito di scena Bersani, potrebbero venire fuori quelli che nel Pd appoggerebbero un governo di scopo per correggere la legge elettorale, tenere sott'occhio i conti pubblici e fare qualche riforma anti-casta. Ma, dalle troie ai puttanieri, lo scontro è diventato durissimo e il Paese è in stallo. Riuscirà Re Giorgio a riaccendere il motore?
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