La privatizzazione delle Poste da parte del governo non è un'iniziativa di risanamento della finanza pubblica e di sviluppo, mediante l'apertura al mercato, ma una svendita di argenteria di famiglia, rivolta a compiacere i sindacati, l'intreccio di potere fra partiti al governo e clientele politiche e burocrazia.
Il progetto prevede il collocamento in Borsa del 40% delle azioni, senza che si sappia chi abbia valutato tale pacchetto azionario, con cui il governo stima di incassare circa sei miliardi di euro. Il colosso Poste italiane secondo i dati del bilancio del 2012 ha un fatturato di 24 miliardi, di cui 10,5 di Poste Vita (cioè risparmio - assicurativo con 10, 5 miliardi di premi), 3 milioni di Sim, investimenti per 477 miliardi, con un utile netto di 1.032 miliardi. Ma fra le righe si scopre che di questo 40% di azioni che saranno collocate sul mercato una buona fetta, il 5% verrebbe dato gratis al personale, mediante un'operazione appositamente studiata, che non viene spiegata. Sembra che si tratti di una opzione a un prezzo simbolico o con un pagamento molto dilazionato di una piccola cifra forfettaria, insomma un regalo ai 145mila impiegati.
Perché il contribuente italiano, così tartassato, deve regalare agli impiegati postali il 5% dell'azienda pubblica? Quale regola della contabilità dello Stato lo consente? Anche ammesso che davvero questa impresa valga solo 15 miliardi, il 5% vale 750 milioni, non spiccioli. Come si distribuirà il diritto alla opzione (semi) gratuita a 750 milioni fra i 145mila addetti? Sarà eguale per tutti? Oppure si terrà conto dell'anzianità o sarà una sorta di bonus proporzionale alla retribuzione? La conseguenza di questa elargizione è che, con un minimo di organizzazione, i sindacati degli impiegati postali potranno nominare propri esponenti nel Consiglio di amministrazione, in quanto detentori di un pacchetto di azioni cospicuo. Ma il discorso non finisce qui. Infatti, stando a ciò che è stato reso noto, il progetto del governo prevede che la società assuma il modello duale, di diritto europeo, di ispirazione tedesca, in cui vi è un Consiglio di amministrazione e sopra di esso un Consiglio di supervisione (Oversight rat), che detta le linee strategiche ed esercita il controllo su amministratori e manager.
E del Consiglio di supervisione farebbe parte anche una rappresentanza dei sindacati aziendali, secondo il modello della Germania del dopoguerra della Seconda guerra mondiale: la cosiddetta Mitbestimmung ovvero codeterminazione. Ma in Germania questo modello è stato applicato a grandi imprese manifatturiere, ed è rimasto quindi una faccenda di carattere aziendale, di collaborazione sindacale, con i suoi pro e i suoi contro (che sono maggiori dei primi, come si è riscontrato nella prassi). Il caso di Poste italiane è diverso. Infatti questa mega azienda non è una mera impresa di servizi postali, tradizionali o di tipo innovativo (come il trasporto di merci con gli aerei aziendali che sono 5), è sempre di più una istituzione finanziaria, che con le assicurazioni, i conti correnti e i depositi, le carte di credito postali, gestisce servizi bancari e para bancari. Ha anche una banca, la Banca del Mezzogiorno. La Società Poste italiane è il polmone finanziario di cui si alimenta la Cassa depositi e prestiti. La sua raccolta bancaria a breve, medio e lungo termine è attorno ai 250 miliardi.
I servizi che svolge per lo Stato sono molteplici e delicati. Ne consegue che la presenza dei sindacati nel suo vertice gestionale significa metterli nel vertice della finanza pubblica, un modello di tipo semi jugoslavo. Letta e Saccomanni stanno consentendo alle banche tedesche di comprare la maggioranza azionaria della Banca di Italia, con le sue riserve auree.
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