«Ma le pare che con il rapporto che abbiamo con il mondo arabo avremmo potuto collaborare a una operazione del genere?». Solo alla fine dell'intervista il generale Nicolò Pollari, ex direttore del Sismi, si lascia un po' andare. E dice chiaramente che dietro al caso Abu Omar non ci sono solo diversità di cultura e di regole tra i servizi segreti italiani e quelli americani. Ma anche strategie assai diverse su come muoversi nel difficile scenario dell'Islam internazionale.
Generale, la sentenza della Corte Costituzionale che ha confermato il segreto di Stato sul caso Abu Omar spazza via la sua condanna a dieci anni di carcere. Contento?
«Il segreto di Stato non l'ho messo io, e anzi ho chiesto invano di esserne sollevato per dimostrare la mia innocenza. D'altronde sarebbe inverosimile che quattro governi di orientamenti diversi si trovassero d'accordo solo nel proteggere la mia persona. Figuriamoci se fanno i conflitti per difendere me».
E allora perché Prodi, Berlusconi, Monti e Letta hanno scelto di imporre il segreto sul rapimento dell'imam, a costo di scontrarsi con la magistratura?
«Ci possono essere anche motivazioni che non conosco. Di sicuro lo hanno fatto per tranquillizzare gli altri paesi, e dimostrare che questo è un paese serio».
In che periodo gli americani ci avvisarono che volevano portare via Abu Omar?
«Non ho mai detto che ci abbiano avvisati. Di certo se io avessi saputo che a qualcuno pungeva vaghezza di fare questa cosa avrei creato le condizioni perché ciò non avvenisse. Io ogni qualvolta ho avuto notizia che qualcuno potesse avvicinarsi a una prospettiva di questo genere mi sono impicciato per impedirlo».
Una intera comitiva di agenti segreti americani sbarca in Italia a rapire un presunto terrorista senza che i nostri servizi se ne accorgano? E cosa ci state a fare?
«Di chi entra in italia si occupa la polizia di frontiera. Se un organismo di intelligence interagisce con un organismo dello Stato la cosa non mi riguarda. Ho letto negli atti processuali che gli americani interagivano con la polizia di stato e con i carabinieri. Bisognerebbe chiedere a loro il perché di questa interazione».
L'impressione è che gli americani qui si muovessero come a casa propria.
«Nel mio Sismi non c'era subordinazione né metus verso nessuno. Noi siamo un organo di questo paese, non abbiano complessi di inferiorità verso nessuno, siamo l'espressione di una piccola realtà ma dotati di spiccato senso di autonomia».
Dopo quanto accaduto, l'inchiesta, gli arresti, i processi, gli americani si fidano ancora di noi?
«Io non mi sono mai occupato se si fidassero o no, io mi occupavo degli interessi del paese. Nei rapporti internazionali la collaborazione e fatta di lealtà, ma la mia lealtà finiva dove iniziavano i reati. E il Sismi guardava a se stesso. Noi avevamo la nostra efficienza nel mondo di cui hanno beneficiato molti paesi. Certo, nel mondo dell'intelligence la fiducia riguarda soprattutto le persone e, come è noto, si conquista lentamente e si perde rapidissimamente. Suppongo che la fiducia verso le persone non sia venuto meno, e anzi si siano meravigliati dello spirito di sopportazione che abbiamo dimostrato in questi anni. Il dottor Marco Mancini è stato messo addirittura in carcere».
Ma ad accusarvi era un funzionario del Sismi.
«Non so se ho mai visto in vita mia il colonnello D'Ambrosio, non ho mai visto in vita mia Bob Lady. Ma gli americani sanno come sono andati i fatti, e sanno che noi non c'entriamo. E lo sanno anche gli egiziani».
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