Scende dal motoscafo all'una precisa. E si avvia con passo marziale verso il suo ufficio di sindaco. Un breve applauso all'ingresso di Ca' Farsetti è quel che gli serve per fugare gli ultimi dubbi. Giorgio Orsoni torna in municipio, sicuro di sé e gelido verso il partito che lo ha mandato al macello. Oggi è giorno di rivincita, dopo le manette e le frasi umilianti sul suo conto e tutto quello che ha dovuto sopportare per una settimana. Sorpresa: il primo cittadino viene quasi riabilitato dalla procura. La misura cautelare viene revocata, con il parere favorevole dei pm. Soprattutto, rapidissimo, arriva l'ok dei pm a un patteggiamento che rappresenta una quasi assoluzione, se verrà accettato dal gip: 4 mesi per finanziamento illecito. Più una pena pecuniaria di 15mila euro. Insomma, visto dallo specchietto retrovisore del garantismo, l'arresto non sta più in piedi. Ed è bastato un verbale, senza nemmeno il bisogno di confronti incrociati, per appurare una nuova verità: Orsoni ha ceduto alle insistenze del Pd veneto, ha chiesto aiuto a Giovanni Mazzacurati, ma non ha preso un euro. Dietro di lui si muoveva l'apparato, il partito che con la campagna per l'elezione del sindaco nel 2010 ha gestito quasi un milione. Voce, gli gridano i giornalisti e lui replica tagliente: «Andate dall'otorino». Si dimette? È la domanda scontata e lui, netto come la lama di un coltello, risponde con un urlo: «No».
Nel pomeriggio riunisce la giunta e precisa: «Non ci sono le condizioni per le dimissioni: si va avanti». Con la benedizione dei pm e della prefettura che l'aveva sospeso. La pena concordata, fa l'altro, lo mette al riparo dagli strali della legge Severino. Dunque Orsoni risorge. Si difende. E anzi contrattacca. «La mia campagna non è stata gestita da un comitato che rispondesse direttamente a me, ma direttamente dai singoli partiti e io non conoscevo le norme sui fondi elettorali». Basta una spiegazione del genere, in stile Alice nel paese delle meraviglie?
Per il momento sì, se ne va solo l'assessore alle Politiche educative Tiziana Agostini, ma il commissario viene fermato sulla porta. «Non ho nulla da rimproverarmi», ripete il sindaco che invece ha molto da rimproverare al Pd. All'inizio nemmeno lo nomina il partito, si limita, freddo come il ghiaccio, a scaricare ogni responsabilità sul suo «mandatario elettorale». Poi, dopo qualche ora, frena, ma fino a un certo punto: «Credo che ci sia qualcuno che forse non ha capito o forse ha fatto finita di non capire quello che stava succedendo». Qualcuno dentro il Pd, «non so se tutto il Pd». Le domande tornano sullo stesso punto e lui sbotta: «Li leggete anche voi i giornali. Trovo offensivo che qualcuno mi abbia messo nel mucchio insieme ai malfattori che maneggiavano il denaro pubblico». Dove quasi trasparente pare il riferimento alle parole durissime pronunciate un minuto dopo il suo arresto da personaggi autorevoli del Pd. Come Alessandra Moretti, veneta di Vicenza, che l'aveva frettolosamente sepolto con un: «Provo rabbia». Ora l'indignato è Orsoni. Accenna a una possibile resa dei conti, dentro il partito e anche fuori. Fa balenare una raffica di querele. Ripete un concetto che è un atto d'accusa politico e giudiziario: «Era il partito a spingermi da Mazzacurati». E il partito è nei nomi a verbale: David Zoggia, Giampietro Marchese, Michele Mognato.
E Mazzacurati? «Fu lui ad insistere per sostenere la mia campagna elettorale, dicendo che questo era un compito che si era assunto da sempre con tutti gli altri candidati a sindaco, perché non voleva che il vincitore potesse incolparlo di non averlo sostenuto».
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