Il parere di Beniamino Caravita di Toritto, Giuseppe de Vergottini e Nicolò Zanon

Ecco il testo integrale del parere pro-veritate di Beniamino Caravita di Toritto, Giuseppe de Vergottini, Nicolò Zanon

Parere pro veritate sulla conformità a Costituzione dell’art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 2012 n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190)

1. In attuazione della legge delega n. 190 del 2012, il decreto legislativo n. 235 del 2012 dispone, all’art. 1, che ‘Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato o senatore’ coloro che siano stati condannati in via definitiva per una serie di reati indicati dallo stesso art. 1.

Tale disposto provoca, in capo ai condannati, due diversi effetti, distinti fra loro. In primo luogo, l’art. 1 prevede, come effetto automatico, la incandidabilità dei condannati, intesa come radicale limitazione dell’elettorato passivo per il tempo determinato dalla legge e conseguente impossibilità, per costoro, di essere inclusi nelle liste elettorali per le elezioni al Parlamento nazionale (oltre che al Parlamento Europeo e ai consigli regionali, provinciali e comunali) successive al passaggio in giudicato della sentenza. Si tratta perciò di una incandidabilità pro futuro.

In secondo luogo, e viene in considerazione il contenuto dell’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012, se la causa d’incandidabilità sopravvenga ad elezioni già svolte, la Camera di appartenenza (così si esprime il decreto legislativo con una prudenza significativa, ma insufficiente, come si dirà) “delibera ai sensi dell’art. 66 della Costituzione”, potendo così determinare la decadenza del parlamentare dal mandato ottenuto per via elettorale. Si tratta perciò di una incandidabilità che si traduce in eventuale decadenza del parlamentare dal seggio regolarmente ottenuto alle elezioni, quando le cause di incandidabilità non si erano ancora manifestate, e che incide direttamente e immediatamente sulla composizione politica della Camera d’appartenenza del condannato.

2. Il primo dei due effetti è frutto di una scelta discrezionale del legislatore del 2012, che risponde a precise scelte politiche in tema di trasparenza e di difesa del livello di onorabilità della classe parlamentare. Si tratta di una scelta adottata in conseguenza di vicende di malcostume e criminali ben note, che hanno suscitato sconcerto e preoccupazione nell’opinione pubblica.

Come tale, questa scelta legislativa non è oggetto di diretta valutazione nel presente parere, che attiene principalmente al secondo degli effetti prima richiamati.

E’ bene, tuttavia, per inquadrare il particolare tema qui in oggetto (quello dell’incandidabilità sopravvenuta ad elezioni già svolte, che determinerebbe la decadenza del parlamentare dal seggio ricoperto in virtù del risultato elettorale), chiarire che anche il primo dei due effetti qui considerati – per brevità: l’incandidabilità pro futuro – è il risultato di una scelta assai radicale e di particolare rigore, che estende (come si dirà, con qualche difficoltà) alle elezioni politiche le disposizioni già vigenti per quelle locali e regionali. Una scelta, è bene osservare, che pur presenta qualche profilo di dubbia compatibilità con le regole costituzionali che assistono il mandato parlamentare.

3. Come è noto, in base all’art. 51, comma 1,Cost., “tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Come mette in luce la dottrina (cfr. ad es. U. Pototschnig, Art. 97, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma 1994, pp. 380 ss.), le cariche elettive di cui ragiona questo articolo sono tutte quelle che risultano da un’elezione, e sicuramente tutte quelle che risultano da un’elezione a suffragio universale: e vi sono perciò ricomprese le cariche parlamentari insieme alle cariche elettive regionali o locali. In relazione a tali cariche esiste quindi una sfera di discrezionalità del legislatore nell’intervenire a fissare i limiti dell’elettorato passivo.

Tale discrezionalità legislativa, tuttavia, deve innanzitutto confrontarsi con il fatto che l’elettorato passivo è un diritto inviolabile, garantito, oltre che dall’art. 51 cost., dall’art. 2 cost. (cfr. ad es. Corte cost., sentenze nn. 571 del 1989, 235 del 1988, 467 del 1991, 141 del 1996), cui vanno aggiunte le previsioni in tema di effettività della tutela dei diritti di fronte a un giudice imparziale previste in Costituzione (art. 111) e inserite nelle carte internazionalmente adottate e recepite nel nostro ordinamento (art. 6 CEDU e art. 47 della carta di Nizza) . Ciò reagisce necessariamente sulle modalità di redazione, interpretazione e applicazione delle norme che intervengono a limitare tale diritto inviolabile.

Inoltre, come afferma una consolidata giurisprudenza costituzionale, non scalfita nemmeno dalla recente riforma del titolo V° della Costituzione, il ruolo delle assemblee parlamentari nazionali non è assimilabile a quello dei collegi elettivi delle Regioni e degli enti locali: sicché, da un lato, sembra conforme a ragionevolezza una diversa disciplina dei limiti all’elettorato passivo rispettivamente stabilita per le assemblee rappresentative nazionali e per quelle di Regioni ed enti locali (cfr. ad es. Corte cost., sentenza n. 407 del 1992); e, dall’altro, nulla impone, in termini costituzionali, una parificazione dei limiti dell’elettorato passivo nei due casi, ed anzi sarebbe appunto da dimostrare la conformità a Costituzione (non solo sotto il profilo della ragionevolezza per una ingiustificata espansione della disciplina delle elezioni regionali e amministrative, quanto soprattutto sotto gli altri profili che si diranno) della particolare parificazione che il legislatore del 2012 ha realizzato sul punto della incandidabilità.

Ma quel che soprattutto qui rileva, è infatti che la disciplina costituzionale specifica dei limiti all’elettorato passivo al Parlamento nazionale è contenuta, non già genericamente nell’art. 51 cost., ma nell’art. 65, comma 1,Cost., il quale recita che “la legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato e senatore”.

Ora, proprio qui parrebbe risiedere una prima difficoltà. Con riferimento all’assunzione del mandato parlamentare, tale articolo ben si può considerare norma “speciale”, rispetto al generale riferimento che l’art. 51, comma 1, Cost., fa all’intervento della legge sui requisiti per l’assunzione di cariche elettive. Con riguardo al mandato parlamentare, il legislatore dovrebbe dunque limitarsi a intervenire a stabilire regole in tema di ineleggibilità (oltre che di incompatibilità), non potendo invece introdurre limiti all’elettorato passivo che all’ineleggibilità non siano strettamente riferibili.

La questione preliminare consiste dunque nel verificare se esista una categoria, un concetto costituzionale specifico d’ineleggibilità, o se invece tutto dipenda dalle classificazioni del legislatore, potendosi allora ricostruire la categoria dell’ineleggibilità solo ex post, sulla base di ciò che il legislatore ritenga di denominare così.

E’ forse corretto dire che non esiste un concetto “naturalistico” d’ineleggibilità, che la Costituzione avrebbe necessariamente presupposto. Ma non si può nemmeno accogliere una prospettazione totalmente opposta, nel senso del rinvio alla mera volontà (che potrebbe in alcuni casi risultare irrazionale) del legislatore, o nel senso che il concetto d’ineleggibilità ex art. 65 Cost. sarebbe un vuoto contenitore, idoneo ad essere riempito dei significati più diversi: ineleggibilità non può essere un qualunque limite legislativo all’elettorato passivo, ma è quel che una giurisprudenza costante (e un comune e consolidato consenso dottrinale) ritengono esser tale, certamente anche sulla base di scelte legislative, a loro volta piuttosto costanti e ragionevoli.

Se questa premessa è corretta, si tratta di verificare se l’incandidabilità rientri o meno all’interno della categoria dell’ineleggibilità: se essa sia species appartenente ad un genus comune, o se invece si tratti di istituto del tutto diverso, non compatibile con le caratteristiche dell’ineleggibilità: in questo secondo caso, la conformità all’art. 65 Cost. della scelta di fondo compiuta dal legislatore del 2012 sarebbe discutibile, e ciò, di risulta, colorerebbe di una preliminare luce di incostituzionalità anche la scelta contenuta nell’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012 in tema di incandidabilità sopravvenuta.

4. Solo in apparenza un veloce esame della giurisprudenza costituzionale condurrebbe a ritenere facilmente risolvibile la questione appena sollevata. Nelle sentenze nn. 407 del 1992 e 141 del 1996 la Corte afferma, anche se incidentalmente, che “la non candidabilità va considerata come particolarissima causa di ineleggibilità” (cfr. anche Corte cost., sentenza n. 132 del 2001, in cui la Corte sembra addirittura equiparare i due istituti affermando che “le fattispecie di incandidabilità e quindi di ineleggibilità … rappresentano … l’espressione del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche”).

Come si diceva, è questa solo apparenza superficiale e si sbaglierebbe a ritenere per ciò solo risolto il problema. Intanto, l’incandidabilità sarebbe pur sempre una causa “particolarissima” di ineleggibilità; inoltre, la Corte ha fatto queste affermazioni con riferimento alle sole cause di incandidabilità previste per enti locali e Regioni, ed è tutto da dimostrare che essa direbbe le stesse cose con riferimento a cause di incandidabilità previste per deputati e senatori, che si presentano per la prima volta nel panorama normativo interno.

Appare inoltre assai importante il riferimento alle diverse rationes che stanno dietro la previsione, rispettivamente, di cause di ineleggibilità e di incandidabilità.

Come è noto, la previsione delle cause d’ineleggibilità è motivata dall’obbiettivo di impedire che i candidati, in virtù delle particolari posizioni da essi rivestite, possano condizionare il libero convincimento e la libera manifestazione del voto degli elettori, ovvero possano trovarsi, se eletti, in conflitto d’interessi con l’esercizio della funzione elettiva.

E’ anche importante il rilievo per cui il legislatore non può far derivare l’ineleggibilità da situazioni personali che il soggetto non possa liberamente rimuovere (v. Corte cost., sentenze nn. 141 del 1996; n. 97 del 1991).

D’altra parte, le cause di ineleggibilità non impediscono al soggetto di partecipare alla competizione elettorale, ma influiscono sulla validità dell’elezione (cfr. in proposito Corte cost., sentenza n. 84 del 2006, laddove la Corte, seppur criticamente, rileva come la normativa sulle ineleggibilità dei consiglieri regionali “non consente che le cause di ineleggibilità emergano, come quelle di incandidabilità, in sede di presentazione delle liste agli uffici elettorali”).

Risultano di un certo peso, allora, le differenti caratteristiche delle cause d’incandidabilità. Come afferma la Corte costituzionale nella sentenza n. 141 del 1996, “l'elezione di coloro che versano nelle condizioni di non candidabilità è nulla, senza che sia in alcun modo possibile per l'interessato rimuovere l'impedimento all'elezione, come invece è ammesso per le cause di ineleggibilità (cfr. la sentenza n. 97 del 1991)”.

Anche la Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. I, n. 3904 del 2005) ha approfondito le differenze fra incandidabilità ed ineleggibilità. La Cassazione ha osserva che mentre “le cause di incandidabilità alla carica di amministratore locale (cfr. artt. 56 e 58 del d. lgs. n. 267 del 2000) si riferiscono ad uno status di inidoneità funzionale assoluta e non rimovibile da parte dell'interessato”, “le cause di ineleggibilità (cfr. artt. 60 e 61 del t.u.) sono stabilite allo scopo di garantire la eguale e libera espressione del voto, tutelata dall'art. 48, comma 1, primo periodo, Cost. (...), rispetto a qualsiasi possibilità di captatio benevolentiae esercitabile dal candidato o di metus potestatis nei confronti dello stesso”.

Inoltre, la Corte di Cassazione ha rimarcato che la violazione delle norme sull’ineleggibilità “determina l’invalidità dell’elezione del soggetto ineleggibile, il quale non abbia tempestivamente rimosso la relativa causa”.

Dunque, tra ineleggibilità e incandidabilità emerge in primo luogo una differenza di ratio: la ratio delle previsioni di non candidabilità non attiene in alcun modo allo svolgimento della competizione elettorale. Essa è invece volta a tutelare “il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche, l'ordine e la sicurezza, la libera determinazione degli organi elettivi” (cfr. Corte cost., sentenze nn. 141 del 1996, 118 del 1994, 197 del 1993 e 407 del 1992).

Ciò è del resto confermato dal tipo di reati che, nel testo unico degli enti locali n. 267 del 2000 (art. 58), sono il presupposto della non candidabilità alle elezioni locali.

Da un lato, sono reati commessi contro la pubblica amministrazione (ad esempio peculato, corruzione, concussione, corruzione in atti giudiziari), dall’altro, sono reati di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) ed in materia di stupefacenti. Quando la Corte di Cassazione osserva che le cause di incandidabilità si riferiscono ad uno status di inidoneità funzionale assoluta, mette in luce che esse si riferiscono a soggetti che, a causa dei reati commessi e accertati con sentenza definitiva, si trovano in una sorta di condizione diminuita in riferimento all’elettorato passivo. Inoltre, colui sul quale gravi una causa d’incandidabilità non può rimuoverla, come può invece fare (entro certi limiti) colui sul quale gravi una causa di ineleggibilità.

Si potrà anche ritenere che questi aspetti non impediscano di considerare l’incandidabilità una sottospecie dell’ineleggibilità, ma si deve riconoscere che l’accertamento di una causa d’incandidabilità produce l’effetto irreversibile (si sottolinei questo termine) di escludere il soggetto dalla competizione elettorale.

L’unica via giuridica per la rimozione della causa di incandidablità consistente in una condanna definitiva sarebbe la riabilitazione, che estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna stessa. Ma le condizioni alle quali la riabilitazione può essere concessa (cfr. art. 179 c.p.) sfuggono all’interessato, perché sono soggette a una valutazione discrezionale del Tribunale di sorveglianza (art. 683 c.p.p.), il quale non compie atti dovuti ma dispone di un margine per verificare se il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta (cfr. Cass. Pen. Sez. V, 24 giugno 1985, n. 773; Cass. Pen., sez. I, 28 maggio 1996, n. 1274)

5. In definitiva, su questo primo aspetto, se si tiene nella necessaria e dovuta considerazione la tesi per cui incandidabilità e ineleggibilità sono due istituti strutturalmente non simili, è difficile liberarsi con disinvoltura dal dubbio che previsioni legislative che estendano le cause di incandidabilità a deputati e senatori non siano conformi al tenore testuale dell’art. 65, comma 1,Cost., che si riferisce alle sole cause di ineleggibilità.

Appare dunque meritevole di attenzione, appunto, la tesi per cui l’art. 65 Cost., quando stabilisce che la legge determina i casi di ineleggibilità all’ufficio di deputato o senatore, voglia dire che la legge può intervenire solo a stabilire cause di ineleggibilità (e incompatibilità), e non altre cause di limitazione dell’elettorato passivo. In altre parole, come si diceva, mentre fuori dal campo delle cariche elettive parlamentari vi sarebbe una discrezionalità legislativa più ampia (“i requisiti stabiliti dalla legge” per l’accesso alle cariche elettive in generale, di cui ragiona l’art. 51, comma 1, cost.), in questo ambito il legislatore potrebbe intervenire a fare solo ciò che la Costituzione gli consente espressamente di fare. E’ da aggiungere che questa prospettiva non va considerata meramente formale: non si tratta solo di interpretazione letterale del testo dell’art. 65, comma 1,Cost., perché, anzi, come si è evidenziato, in questione sono le diverse caratteristiche sostanziali degli istituti dell’ineleggibilità e dell’incandidabilità.

Non varrebbe obiettare che sarebbe in fin dei conti l’art. 48, comma 4, Cost. a consentire al legislatore di intervenire a introdurre cause d’incandidabilità derivanti da condanne penali. La disposizione in questione, infatti, stabilisce testualmente che sia l’elettorato attivo a poter essere limitato per effetto di una sentenza penale irrevocabile. E’ ben vero (cfr. anche l’accenno in Corte cost., sentenza n. 132 del 2001) che la perdita dell’elettorato attivo trascina con sé quella dell’elettorato passivo, determinando l’insorgenza di una causa di incapacità elettorale passiva. Ma innanzitutto l’effetto è indiretto, ed è dovuto ad una scelta che il legislatore deve, per dettato costituzionale, consapevolmente indirizzare verso l’elettorato attivo. Inoltre, ammesso che l’intervento legislativo che priva del diritto di voto possa comportare incapacità elettorale passiva per cariche elettive non parlamentari, resterebbe pur sempre da argomentare la tesi per cui, alla luce dell’art. 48, comma 4, cost. (riferito all’elettorato attivo!) è possibile alla legge stabilire una causa d’incandidabilità al Parlamento nazionale, laddove l’art. 65 Cost., norma speciale per le cariche parlamentari, consente al legislatore di intervenire a prevedere sole cause d’ineleggibilità (e di incompatibilità). Come si vede un percorso piuttosto tortuoso.

In definitiva, tutto dipende dal concetto sostanziale di ineleggibilità che si accoglie, e che si presuppone (o non si presuppone) accolto dall’art. 65 Cost.

In un parere pro veritate, non si vuole affatto nascondere che le argomentazioni fin qui esposte possono essere criticate e contestate. La condizione è però che si dimostri in modo persuasivo (con riferimento non già ad elezioni locali o regionali, ma a quelle per il Parlamento nazionale, la cui disciplina è ragionevolmente diversa ai sensi degli artt. 65 e 66 cost. e della consolidata giurisprudenza costituzionale, estremamente chiara nel senso della diversità di collocazione costituzionale del Parlamento nazionale rispetto alle assemblee regionali: cfr., fra le tante, Corte cost., sent. n. 106 del 2001, sulla non utilizzabilità del nome “Parlamento” per i consigli regionali) che le cause d’incandidabilità rientrano con certezza nel concetto di ineleggibilità, accolto dalla Costituzione.

6. Con queste premesse critiche, è possibile affrontare la questione, qui cruciale, dell’incandidabilità sopravvenuta in corso di mandato.

Come si ricordava, l’art. 1 d. lgs. 235/2012 prevede, accanto al divieto di candidarsi, il divieto di ricoprire la carica di deputato o senatore successivamente alla sentenza definitiva di condanna. E a tal fine l’art. 3 dello stesso decreto legislativo (Incandidabilità sopravvenuta nel corso del mandato elettivo parlamentare) appresta un procedimento particolare, volto ad adattare al mandato parlamentare il divieto, stabilendo che "qualora una causa di incandidabilità di cui all’articolo 1 sopravvenga o comunque sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’art. 66 della Costituzione".

E’ in particolare sulla compatibilità con l’art. 66 della Costituzione che tale disposto del decreto legislativo va valutato.

Se il divieto di ricoprire cariche elettive successivamente ad una sentenza definitiva di condanna, con correlativa decadenza, non sembra provocare particolari inconvenienti per le elezioni amministrative, dove la incandidabilità può essere fatta valere in via del tutto automatica in sede amministrativa (salvo contestazione in sede giurisdizionale), è da affermare che lo stesso divieto, se applicato in modo automatico ai membri delle Camere, è inevitabilmente destinato ad entrare in conflitto con l’art. 66 Cost. (Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità), che riserva in via esclusiva alle stesse Camere il giudizio sui titoli di appartenenza dei suoi membri, e dunque anche sul sopravvenire di situazioni che determinino l’interruzione del mandato. Si tratta di una garanzia di indipendenza funzionale ed organizzativa connaturata al ruolo del Parlamento nel sistema costituzionale, non solo in quanto potere dello Stato, ma soprattutto per la funzione rappresentativa della volontà popolare: deriva da ciò la netta e costituzionalmente necessaria differenziazione dai consigli rappresentativi delle regioni e degli enti locali e il conseguente conferimento ai suoi membri di uno status differenziato.

L’art. 66 Cost., sempre in predicato di essere revisionato, continua ad essere presente in Costituzione, attribuendo così a ciascuna Camera una posizione peculiare nel giudizio sui titoli dei propri membri, in caso di contestazione dell’elezione. La dottrina che si è occupata delle cause sopravvenute d’ineleggibilità alla carica di deputato e senatore, considera acquisito che la condanna penale definitiva, pur se accompagnata da una pena accessoria quale l’interdizione perpetua da pubblici uffici, non determina, di per sé, alcun effetto automatico di decadenza dal mandato parlamentare. E la prassi parlamentare, nei casi in cui è stata sollecitata a svilupparsi, ha confermato questo assunto. In definitiva, non si dubita che l’art. 66 Cost. – per quanto si possa non apprezzarne la ratio e sostenere la necessità di una sua revisione - preveda un passaggio procedimentale essenziale: ciascuna camera giudica liberamente sui titoli di ammissione dei propri membri e delle cause sopraggiunte d’ineleggibilità (e incompatibilità).

Non può non essere valutato, in questo contesto, l’uso del verbo “giudica”: il fatto che la Camera giudichi, oltre ad avere conseguenze precise in ordine alla natura della Giunta per le elezioni, implica che la Camera possa e debba valutare e interpretare, non già limitandosi ad applicare meccanicamente valutazioni ad essa “esterne”. Insomma, la norma costituzionale contenuta nell’art. 66 implica una valutazione discrezionale e non già una mera applicazione. E ciò in ragione del principio costituzionale della sovranità del Parlamento quale espressione della sovranità popolare. “Nelle forme e nei limiti della Costituzione”, certo, e dunque anche degli artt. 65 e 66, che rappresentano una forma costituzionalmente prevista di garanzia del Parlamento rispetto agli altri poteri o ordini dello Stato Proprio da ciò deriva il fatto che, per comune consenso, corroborato dalla prassi parlamentare, la camera d’appartenenza non appare tenuta a dare un seguito automatico alla pronuncia dell’autorità esterna (nel nostro caso, l’autorità giudiziaria) in base alla quale l’eleggibilità venga meno. Non esiste cioè un obbligo della Camera d’appartenenza di dichiarare la decadenza del parlamentare, senza compiere specifici e autonomi accertamenti (cfr. sul punto V. Lippolis, Art. 66, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1986, p. 14).

Va sottolineato fortemente che l’art. 66 Cost. ha quale sua ratio ispiratrice quella di evitare che soggetti esterni possano incidere sulla composizione delle Camere. Nel disegno costituzionale, una libera decisione di queste ultime – eventualmente costitutiva e non dichiarativa degli effetti della decadenza – è quindi fondamentale, soprattutto al fine di accertare che “l’attività promanante da un potere estraneo si sia mantenuta nella sfera propria di questo e non configuri un attentato alla libertà politica” del parlamentare (così A.Manzella, La formazione della Camera, in Il regolamento della Camera dei deputati, Storia, Istituti, procedure, a cura del Segretariato generale della camera dei deputati, Roma 1968, p. 129). Proprio questa funzione garantista dell’art. 66 Cost. sembra inoltre rendere necessario, nel caso specifico, attendere le motivazioni della sentenza di condanna a carico del sen. Berlusconi e dubbia invece la scelta che conducesse a procedere immediatamente al voto sulla decadenza in loro assenza: giacché proprio la mancata attesa delle motivazioni renderebbe palese l’automatismo tra dictum del giudice e decadenza, in violazione manifesta dell’art. 66 cost. (del resto, il termine “immediatamente” è bensì contenuto nell’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012, non in riferimento alla decadenza, ma alla comuniczione alla camera di appartenenza della condanna; e poiché, laddove si ragioni di diritti, le parole hanno un loro peso, ne deriva che “immediato” deve essere l’avvio del procedimento, ma non certo la sua conclusione). 7. Solo in apparenza, come si accennava, la pur prudente formulazione dell’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012 (“Qualora una causa di incandidabilità … sopravvenga o sia accertata nel corso del mandato elettivo, la Camera di appartenenza delibera ai sensi dell’art. 66 della Costituzione”) appare conforme a Costituzione.

Cruciale è infatti considerare che tale formulazione non risolve in modo univoco il problema dello spazio di determinazione riservato alle Camere ai sensi del d.lgs. 235/2012, o se si preferisce, della natura della deliberazione che, in base a questo, deve essere assunta presso la Giunta delle elezioni, in riferimento a un parlamentare in carica, eletto regolarmente quando ancora nessuna causa di incandidabilità si era manifestata.

Non vale osservare, come pure è stato fatto da alcuni dei parlamentari che nella scorsa legislatura parteciparono direttamente all’elaborazione del d. lgs. n. 235 del 2012, che il testo dell’art. 3 fu progressivamente modificato, proprio per escludere ogni automatismo nella decisione sulla decadenza (cfr. S. Ceccanti in http://www.huffingtonpost.it/2013/08/19/incandidabilita-berlusconi-legge-severino-governomonti_n_3779468.html?utm_hp_ref=italy) Infatti, delle due l’una.

O la deliberazione, come è stato sostenuto da taluni, ha da ridursi ad una formale presa d’atto di quanto stabilito dal potere giudiziario con sentenza passata in giudicato, sicché lo spazio di determinazione della Giunta sarebbe del tutto escluso e sarebbe esclusa, parimenti, ogni valutazione sovrana delle Camere. E allora, in palese violazione dell’art. 66 Cost., l’art. 3 d.lgs. 235/2012 provocherebbe un’evidente lesione di una delle prerogative costituzionali della camera d’appartenenza, e cioè di quella di decidere autonomamente (“La Camera giudica”) in ordine ai titoli di appartenenza dei suoi membri, dovendo invece la Camera limitarsi a recepire quanto stabilito altrove.

Oppure la deliberazione dovrebbe considerarsi da assumere in piena libertà politica, sia dalla Giunta che dalla camera d’appartenenza. Ma anche questa interpretazione non salverebbe la disposizione in esame. Infatti, se il voto della camera è un voto politico (o meglio, una valutazione sovrana che parte dall’esame di alcuni presupposti di fatto), impregiudicato dal diritto, è facile immaginare che contro tale delibera potrebbe essere sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, per avere la camera d’appartenenza, in sede di giurisdizione domestica, ignorato una sentenza di condanna penale, dalla quale discenderebbe, in tesi, l’obbligo di deliberare l’interruzione del mandato. Stante il disposto dell’art. 3, comma 1, d. lgs. 235/2012 ("A tal fine le sentenze definitive di condanna di cui all’articolo 1, emesse nei confronti di deputati o senatori in carica, sono immediatamente comunicate, a cura del pubblico ministero presso il giudice indicato nell’art. 665 del codice di procedura penale, alla camera di rispettiva appartenenza") a sollevare il conflitto dovrebbe infatti ritenersi legittimato il giudice che ha emesso la sentenza o il giudice dell’esecuzione ex art. 665 c.p.p.

Qualunque interpretazione si scelga, insomma, l’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012 si rivela disposizione irragionevole perché produttiva comunque di problemi, e destinata a sollevare questioni di rango costituzionale. E ciò avviene perché, qualunque strada si scelga, è proprio l’estensione alle elezioni politiche dell’istituto della incandidabilità, in particolare se comprensiva del divieto di prosecuzione del mandato per il parlamentare regolarmente eletto, ad essere difficilmente compatibile con il disposto dell’art. 66 Cost., comunque interpretato.

O meglio: tale estensione, soprattutto nella parte che determina la decadenza in corso di mandato, non può essere messa in pratica senza generare problemi di costituzionalità, destinati ad essere portati innanzi alla Corte costituzionale o in sede di giudizio di legittimità (da parte della Giunta per le elezioni, per violazione delle prerogative delle camere) o in sede di conflitto di attribuzione (per violazione delle prerogative del potere giudiziario, laddove una sentenza passata in giudicato venga trattata dalla Camera d’appartenenza come se fosse inesistente): da questo punto di vista, oltre che in contrasto con l’art. 66 cost., l’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012 si appalesa come norma fonte di contrasti non evitabili, perciò intrinsecamente irrazionale, e dunque in contrasto, oltre che con l’art. 66 Cost., con l’art. 3 della stessa Costituzione.

Non si può non riconoscere che questa situazione paradossale deriva dal fatto che, originariamente, il costituente aveva inteso porre un filtro tra politica e magistratura attraverso non solo l’istituto dell’autorizzazione a procedere, bensì anche attraverso l'autorizzazione a “trarre in arresto o mantenere in detenzione un membro del Parlamento in esecuzione di una sentenza anche irrevocabile”. La prevenzione dei conflitti tra giudicati formali e deliberazioni delle camere (tanto più se riunite in una sede “giurisdizionale”, come è il caso della giunta delle elezioni: cfr. Corte cost., sent. n. 259 del 2009 e Corte di Cassazione, sentt. nn. 9151, 9152 e 9153 del 2008) era dunque affidata a due filtri: l’autorizzazione a procedere, che bloccava temporaneamente l’operato della magistratura, e l’autorizzazione alla detenzione, anche in esecuzione di una sentenza irrevocabile. Dal doppio filtro dell’originario articolo 68 Cost., saggiamente previsto dal costituente, si dovrebbe dunque passare ad una sorta di automatismo, non solo nell’apertura del procedimento, bensì anche nell’esecuzione delle conseguenze della condanna: ciò è fonte di un continuo conflitto, non solo potenziale, tra potere giudiziario e potere politico, destinato infine a prodursi nelle forme paradossali che stiamo esaminando. Poiché è chiarissimo, nella complessiva legislazione sulla incandidabilità del 2012, in quanto estesa al mandato parlamentare in corso, che il giudice che pronuncia una sentenza di condanna, non si limita a giudicare di una fattispecie di reato, ma è di fatto consapevolmente in grado di decidere, altresì, non solo sui diritti politici del condannato a future elezioni, ma soprattutto, come accade per l’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012, sulla fine di un mandato parlamentare regolarmente guadagnato in regolari elezioni, e pertanto sulla stessa composizione delle Camere, valore alla cui tutela era predisposta l’autorizzazione all’arresto e alla detenzione.

Fermi rimanendo i dubbi espressi sulla diversità tra ineleggibilità e incandidabilità e sulla compatibilità di quest’ultimo istituto con l’art. 65 cost., il discorso sarebbe diverso se la misura della incandidabilità fosse disgiunta dal divieto di prosecuzione del mandato in corso, attraverso una eventuale declaratoria di incostituzionalità dell’art. 3 d.l. 235/2012 e se il divieto di prosecuzione del mandato fosse quindi conservato solo per le assemblee amministrative, non garantite dall’art. 66 cost. In questo caso, e a queste condizioni, si coglierebbe davvero l’intento dei redattori del decreto, che era quello di escludere per il futuro un condannato dall’esercizio di funzioni rappresentative: intento rispetto al quale il divieto di prosecuzione del mandato parlamentare, regolarmente assunto tramite elezioni, rappresenta un che di eterogeneo, la cui messa in atto è impossibile senza violare l’art. 66 cost. e il principio di separazione dei poteri che ne ha ispirato la collocazione in Costituzione.

8. E’ da osservare infine l’esistenza, nella legge delega n. 190 del 2012, e nei rapporti di questa con il decreto legislativo n. 235 del 2012, un ulteriore e decisivo profilo di costituzionalità.

La legge delega, alla lettera m) del comma 64, contiene quelli che dovrebbero presentarsi come i principi e criteri direttivi che ispirano la redazione dell’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012.

Ebbene, il testo di questa parte della delega è assai oscuro e fonte di problemi: esso stabilisce che il decreto legislativo deve “disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 63 (fra le quali quelle di deputato e senatore) in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica”. Ora, in disparte la questione della sospensione, non prevista per il mandato parlamentare, è l’espressione “decadenza di diritto” a creare problemi.

Poiché la decadenza dalla carica di parlamentare è regolata dal voto della camera d’appartenenza ex art. 66 Cost. e non consiste affatto, giusto tutto quel che si è fin qui detto, in una “decadenza automatica o di diritto”, delle due l’una: o tale parte della delega non può riferirsi alle cariche parlamentari, ma solo a quelle previste per le cariche di consigliere regionale o di enti locali (che può considerarsi un automatismo), e allora è la previsione dell’art. 3 del d. lgs. n. 235 del 2012 a essere viziata da eccesso di delega (per violazione dell’art. 76 Cost.), in quanto esplicitamente ma incostituzionalmente dedicata a ipotizzare una decadenza del parlamentare regolarmente eletto in corso di mandato. Ovvero, se intende riferirsi anche alle cariche parlamentari, è direttamente la legge delega, per questa parte, a porsi in aperta collisione con il disposto dell’art. 66 Cost.

A tale alternativa non si può sfuggire. O è direttamente incostituzionale la legge delega, o lo è il decreto legislativo.

Per tutti questi motivi, impregiudicati altri profili non oggetto di queste osservazioni, si prospetta l’opportunità che la Giunta per elezioni esamini con attenzione i dubbi di costituzionalità qui indicati, nelle forme e con gli strumenti che essa riterrà, anche eventualmente sollevando questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 del d.lgs. 235/2012, in relazione agli artt. 3, 65 e 66 e 76 cost., con conseguente sospensione del procedimento avanti la Giunta fino alla pronuncia della Corte costituzionale.

Roma, 23 agosto 2013

Beniamino Caravita di Toritto, Giuseppe de Vergottini, Nicolò Zanon

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