Paura del futuro, il mondo prigioniero della nostalgia

I cibi di una volta, le canzoni degli anni Sessanta, i sandali con le zeppe, le fiction del tempo che fu. Nell'Italia del 2008 il passato è un'ossessione che contagia tutto. E che nasconde la paura del futuro

Paura del futuro, il mondo prigioniero
della nostalgia

«Il buon tempo antico? Tutti i tempi, quando sono antichi, sono buoni». Cesare Marchi mi mostrò soddisfatto l’aforisma di lord Byron sul libro fresco di stampa. Lo aveva scelto come esergo del suo Quando eravamo povera gente perché si considerava un passatista irrecuperabile. Se tu fossi ancora fra noi, caro Cesarino, avresti di che consolarti. Vero che i laudatores temporis acti sono sempre esistiti. Vero che ogni epoca ha celebrato le epoche trascorse. Vero che già nel papiro egiziano di Prisse (terzo millennio avanti Cristo) si rimpiangevano i tempi andati, come ci hai insegnato in Siamo tutti latinisti. Ma qui, nell’Italia 2008, siamo al giubileo della nostalgia. Una retromarcia trionfale che s’è fatta industria e riguarda tutti i settori: spettacolo, pubblicità, commercio, moda, design. Viviamo in un Paese con la testa voltata all’indietro. Per coerenza dovremmo almeno essere indulgenti con chi si proclama nostalgico anche in politica.

«Eri davanti alla Tv quella sera?», chiede l’ultima pubblicità delle Generali apparsa sulla stampa: vi si vede Tito Stagno negli studi del telegiornale Rai la notte del 21 luglio 1969, quando l’equipaggio dell’Apollo 11 sbarcò sulla Luna. Un’altra pubblicità della compagnia d’assicurazioni pone un serio quesito esistenziale, che peraltro non ha mai travagliato Gianni Morandi: «Eri un ragazzo che amava i Beatles o i Rolling Stones?». Paradosso dei paradossi: le inserzioni reclamizzano la polizza «Vivifuturo».

Avremmo bisogno di risposte sul presente e invece continuano a farci domande sul passato. Spot della Nutella: contadine con la gerla, materassai che lavorano per strada, campane a festa, scolari in grembiule nero (a proposito: bentornato), maestra che sbatte la canna di bambù sulla cattedra, pennini, calamai. Voce suadente fuori campo: «Mamma, ti ricordi quand’eri bambina? Tutto era così semplice, tutto così genuino». Eppure da anni c’invitano a scegliere l’odierno «mondo genuino del Mulino Bianco». Qui bisogna decidersi: o il mondo era genuino ieri o è genuino oggi. Oppure non c’è alcuna differenza fra ieri e oggi, ma allora la devono smettere di tediarci.

Raiuno manda in onda I migliori anni, presentati da Carlo Conti, ed ecco riapparire Demis Roussos, quello di It’s five o’clock, che io, chiedo scusa, credevo fosse già passato a miglior vita per colpa del colesterolo. Una mia amica era tutta elettrizzata perché nell’ultima puntata del malinconico show ha rivisto Donatella Rettore, con due canotti al posto delle labbra, niente comunque a confronto col nuovo salvagente sfoggiato da Lilli Gruber a Otto e mezzo. La cantautrice di Castelfranco Veneto s’è dimenata troppo e l’ultrasuccinto abito senza spalline le è scivolato giù, lasciandola con le tette di fuori, «ma non si sono viste bene, perché il regista ha subito stretto l’inquadratura, le avrà vizze, tu che dici?», mah, non mi parevano floride neppure nel 1974.

Intanto la medesima Raiuno annuncia la ripresa autunnale di Raccontami, fiction che esalta i formidabili Anni 60 del geometra Luciano Ferrucci, sul quale, dato il cognome, sarebbe da vili maramaldeggiare. L’etere gronda di rimpianti. Radio Margherita di Palermo trasmette brani melodici degli Anni 40. Radio Italia Anni 60 è già arrivata a coprire con le sue frequenze 13 delle 20 regioni italiane. Radio Romantica Anni 80 ha fatto un passetto avanti, ma resta felicemente ancorata al secondo millennio. In Piemonte, Val d’Aosta, Liguria e Toscana va forte Radio Nostalgia. A Roma non trovi un tassista che non sia sintonizzato su Radio Nostalgie, al plurale, emittente sicuramente gradita al sindaco Alemanno, benché di recente abbia cambiato la ragione sociale in Radio Ti Ricordi. Anch’io nel mio piccolo, quando giro in auto per il Triveneto, tengo accesa Radio Birikina, che svolge la stessa funzione dello psicoanalista: una sera ho ascoltato Sole, pioggia e vento cantata da Mal dei Primitives, sedimentata nella memoria dal 1970, e l’indomani non ho resistito all’insano impulso di procurarmela per l’iPod anche nell’interpretazione di Luciano Tajoli, stesso Festival di Sanremo.

Sui banconi dei supermercati si trovano i formaggi di Nonno Nanni, le sfogliatine di Nonna Matilde, le Conserve della Nonna imprecisata, i preparati per creme Dolce Mondo Antico, i dentifrici dell’Antica Erboristeria. Gli ortaggi e il minestrone surgelati vengono dalla Valle degli Orti, che si presume sia verde come quella di John Ford vista al cinema nel 1941. Non vi fidate dell’Antica Gelateria del Corso? Sbagliate. A Roma e dintorni ci sono 232 tra caffè, ristoranti, panifici, farmacie, locande, osterie, cartolerie che hanno gli aggettivi «antico» o «antica» nell’insegna; a Milano 194; a Napoli 176; a Firenze 155; a Torino 132; a Venezia 104.

Resistono indenni a tutte le mode, con i loro marchi d’antan, i biscotti Plasmon, le pastiglie Leone, la colla Coccoina, le compresse digestive Galeffi, l’effervescente Brioschi, la polvere Idrolitina, la cedrata Tassoni, il fernet Branca, il liquore Strega. Il bitter aromatico Angostura continua a essere rivestito dall’etichetta bianca sovradimensionata, quasi più alta della bottiglia, che fu stampata per sbaglio nel 1824 e appiccicata alla meglio sull’intera produzione per non dover pagare un’altra volta il tipografo. E mentre si comincia ad avvertire il rimpianto per il Vov Pezziol e la Ferro China Bisleri, la moda riscopre i sandali con le zeppe, i pantaloni a zampa d’elefante, le borse con i manici di legno ad anello. Il bello è che già vent’anni fa - secolo scorso, insomma - le pubblicità della Nike erano accompagnate dalle musiche degli Anni 60 e gli spot della McDonald’s avevano per protagonista il cantante Little Richard (classe 1932), ritiratosi dalle scene nel 1957 per farsi ordinare ministro della Chiesa Avventista.

L’aspetto più curioso di questo revival senza fine è che la nostalgia, etimologicamente, non appare precisamente una cosa buona: significa «dolore per il ritorno». Una malattia. Non a caso Eugen Dollmann, il colonnello delle SS che traduceva l’italiano per Adolf Hitler, consigliava: «Mai tornare nei luoghi dove si è stati felici». Tre secoli fa i soldati separati dal paesello e dagli affetti ne morivano. O in un modo o nell’altro, visto che un generale russo nel 1733 aveva escogitato un pratico rimedio: seppelliva vive le reclute che indugiavano nel dolente sentimento durante la guerra di successione polacca.

Immanuel Kant sosteneva che in realtà gli uomini non vanno alla ricerca di un luogo perduto, bensì di un tempo perduto: quello, irripetibile, della giovinezza. Sono in grado di smentirlo. Pur inclinando alla nostalgia, e alla sua strettissima parente che è la malinconia, mi sono ritrovato sovente a chiedermi se in cima ai miei desideri vi fosse per caso quello di tornare bambino, di rivivere tutto ciò che ho vissuto, magari in meglio, e la risposta definitiva che mi sono dato ha sorpreso persino me: no, non vorrei. La nostalgia è diventata una comoda ossessione: ci costringe a volgerci indietro per non dover guardare avanti. La nostalgia è paura del domani, è mancanza di ottimismo. Ci rifugiamo nel passato perché viviamo male il presente e più ancora ci spaventa il futuro.

Ma io non credo che gli uomini d’oggi, così come quelli di ieri, in fondo all’anima abbiano nostalgia dell’età in cui erano più giovani e più belli (o meno brutti). In verità abbiamo tutti, senza saperlo, nostalgia del tempo in cui fummo più buoni. Cioè persone migliori. E quello non basta una canzone per farlo ritornare.
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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