«Nel 2006 ci siamo già dentro con tutti e due i piedi. Il problema vero è non andare ancora oltre». La previsione, buttata lì con voce scorata da un dirigente Pd vicino alla segreteria, dà il polso degli umori del centrosinistra, a 40 giorni dal voto. Non tira una bella aria, nello schieramento dato per vincente, dove i sondaggi degli ultimi giorni vengono compulsati senza più entusiasmi, anzi con crescente preoccupazione per quella lieve ma costante erosione del clamoroso vantaggio conquistato con le primarie.
«Il problema è che l'elettorato di Sel si sta liquefacendo ogni giorno che passa, risucchiato da Ingroia e Grillo, mentre noi siamo scesi sotto i livelli del 2008, attorno al 32%, e Berlusconi è in ripresa», spiega il dirigente Pd.
Il rischio pareggio al Senato (come nel 2006, appunto) viene dato praticamente per scontato; e con esso la necessità di fare un accordo con il centro montiano, e dunque di cedere la presidenza del Senato e qualche ministero di pregio. E ieri Pier Ferdinando Casini, parlando con un paio di esponenti del Pd, ha chiarito che i patti andranno fatti con lui, più che con Monti: «Io avrò 14 senatori miei», ha calcolato. Abbastanza per fare un gruppo autonomo, volendo, in barba agli accordi presi, e comunque per reclamare per sé (dopo aver doverosamente chiesto la premiership per Monti, che non verrà concessa) lo scranno più alto di Palazzo Madama. Giudicato la rampa di lancio per il Quirinale, un percorso che Anna Finocchiaro aveva immaginato per sé, se il Pd fosse in grado di prendersi Palazzo Madama. Tanto che qualcuno, in casa ex Ds, inizia ad ipotizzare uno scenario di larghe intese ancora più ampio, che depotenzierebbe il ruolo del Centro: «Sarebbe meglio tenerci il Senato e offrire la presidenza della Camera al Pdl».
«Per fortuna si vota il 24 febbraio», dice il torinese Giacomo Portas, capo dei «Moderati» alleati del Pd ed esperto di sondaggi: ogni settimana in più di campagna elettorale, spiega, in questa fase è a vantaggio di Berlusconi, che «recupera i suoi consensi mentre noi non riusciamo ad ampliarli». Due regioni chiave come Sicilia e Veneto sono considerate già perse: «Se in Sicilia va a votare più del 65%, come andrà, il centrodestra stravince». La Lombardia quasi (i sondaggi del Pd danno il centrosinistra leggermente in vantaggio, ma in casa bersaniana ci si fida più di quelli del Cavaliere, che lo vedono sopra di 4 punti), si spera solo sulla Campania. E questo non vuol solo dire perdere il premio di maggioranza in quelle regioni, regalandolo al Pdl; vuol dire dover dividere quel 45% di senatori che restano con altre coalizioni: due se si calcolano solo Monti e Grillo, tre se si conta anche Ingroia in Sicilia e Campania. Con una perdita numerica secca per la maggioranza futura.
La lista centrista fatta metter su in fretta con Tabacci e Donadi (per garantire la quale si è bloccata la presentazione dei «Moderati») pesca poco o niente, tanto che giovedì scorso, in extremis, Portas è stato convocato a Roma da Bersani e D'Alema che lo hanno pregato di presentare il suo simbolo al Senato almeno in Sicilia e Lombardia, per cercare di prendere qualche voto in più.
Lo stato maggiore Pd preme allarmato su Bersani, chiedendogli di rinvigorire la campagna elettorale, prima che sia troppo tardi.
E così ieri si è iniziato a correre ai ripari, a destra tirando fuori dalla manica l'asso Renzi, cui è stato chiesto di partecipare ad una serie di manifestazioni. E per recuperare a sinistra Bersani riscopre l'antimilitarismo e promette: «Taglieremo la spesa per gli F35».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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