Si scrive Alitalia-Poste ma si può leggere «nuova Iri». L'Alitalia era nel gruppo Iri quando questo era presieduto da Romano Prodi. E già allora la compagnia di bandiera, un tempo gloriosa, aveva imboccato il viale del tramonto, come del resto questo gruppo, che sino all'inizio degli anni '80 era stato gestito in modo indipendente dalla politica.
Ora il governo Letta sembra voler utilizzare la Cassa depositi e prestiti (Cdp), che da qualche anno svolge funzioni utilissime, per un compito arduo e improprio: far nascere una nuova Iri, di cui non c'è alcun bisogno. Per fortuna i vertici di Cassa, una spa con azionisti anche privati, si sono opposti con successo a un intervento nella compagnia. Ma la cosa sembra non finire qui, visto che già si ventila la successiva destinazione della quota di Poste in Alitalia a Fintecna, che la Cdp ha preso dallo Stato lo scorso anno. Fintecna era il nocciolino duro delle imprese Iri che non erano state privatizzate e che erano, perciò, del Tesoro. Un altro passo verso una nuova Iri è stato fatto, sotto il governo Monti, dando a Cdp la quota di controllo di Snam, che sino ad allora apparteneva a Eni. Poiché lo Stato in Eni ha una quota di minoranza, mentre in Cdp ha la maggioranza, come nella vecchia Iri, si è così fatta un ri-statizzazione. Anche per la rete di Telecom Italia, considerata un asset strategico, si sta pensando a un ingresso di Cdp.
In Alitalia le Poste sottoscrivono 75 milioni sui 300 di aumento di capitale. Altri 75 li dà il Tesoro mediante sue garanzie a nuovi soci non specificati mentre 150 li versano i vecchi soci. In tutto 300 milioni, cui se ne aggiungono 200 di crediti bancari. Un mezzo miliardo che, virtualmente, va a carico del contribuente dato che non serve a rilanciare l'impresa ma a tapparne i buchi di bilancio in attesa di una soluzione a fine anno. Infatti Alitalia ha una perdita nel primo semestre di 250 milioni. Pertanto i 500 milioni serviranno per coprire questo buco e per quello eguale del secondo semestre. Dato che le banche si garantiranno sui beni di Alitalia, il mezzo miliardo sarà sopportato dal contribuente nella veste di Babbo Natale.
L'idea dominante sembra essere che noi abbiamo bisogno di una compagnia aerea di bandiera italiana. In realtà all'Italia non dovrebbe interessare chi porta dall'estero merci e passeggeri ai nostro scali aerei, come non interessa il fatto che le navi che vanno e vengono dai nostri porti siano italiane. A noi interessa che i nostri aeroporti operino come scali internazionali, così come interessa che siano valorizzate le funzioni internazionali dei nostri porti. Basta un'occhiata alla carta geografica per vedere che l'Italia è un grande hub naturale. E sarebbe un non senso che noi si debba lasciare questo business ad altri, che utilizzano scali in altre nazioni. Gli americani hanno le basi aeree Nato in Italia: altra prova che i nostri aeroporti hanno un oggettivo valore commerciale. Se Air France, prendendo Alitalia - che ha la dote di scali aeroportuali in Italia - sposta l'hub al Nord, noi perdiamo del tutto la funzione di hub di Malpensa a favore di Parigi e Amsterdam. In più, se Air France diventasse dominante in Alitalia, la Francia obbligherebbe Alitalia a usare gli airbus di sua produzione. Non gli aerei più convenienti. Questo si chiama monopolio. Molte compagnie aeree estranee all'Eurozona potrebbero essere interessate a un hub nel Nord di Italia oltre a Fiumicino, con vantaggio per noi e per loro. Ciò si chiama concorrenza.
Non so se questo governo sarà capace di prendere questa iniziativa, anziché continuare a cadere nella tentazione di proseguire nel disegno della nuova Iri: magari pasticciando il tutto con Air France, secondo la antica massima «Franza o Spagna purché se magna». Occorre un vettore internazionale extra europeo con capitali adeguati, che si prenda Alitalia e la renda redditizia, lasciando al Tesoro al massimo il 5% come golden share.
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