Politica

Il premier blinda l'asse col Cav: "Priorità alla legge elettorale"

In visita da Cameron Renzi insiste sulle riforme: "regge" l'accordo con Forza Italia. E il ministro Boschi conferma i tempi. Anche se dentro il Pd crescono i mal di pancia

Cameron e Renzi davanti alla residenza del premier inglese a Londra
Cameron e Renzi davanti alla residenza del premier inglese a Londra

Quando Giuseppe Garibaldi fece capolino a Trafalgar Square, l'aprile di centocinquant'anni fa, le caute stime della polizia parlarono di oltre mezzo milione di londinesi accorsi a fargli festa (i giornali di più d'un milione): una folla che non si ripeté nemmeno per il funerale del duca di Wellington, che pure aveva sconfitto Napoleone a Waterloo. Non ci fu bisogno di tenere l'ordine pubblico, la gente era contenta di vederlo o forse soltanto di figurarselo, l'eroe dei Due mondi. «Penoso spettacolo di imbecillità», scrisse un bilioso Karl Marx all'amico Friedrich Engels.

Ma è chiaro che stiamo parlando soltanto di un avventuriero, ladro di cavalli nel Mato grosso e generale italiano, socialista, celebre nel ristretto mondo ottocentesco. Il nuovo prodotto da esportazione globale, nel multitasking e frenetico mondo di oggi, si chiama invece Matteo Renzi e per l'Italia prefigura destini ben più prodigiosi. Scarica di adrenalina per la City londinese e feeling a pelle sia con il premier conservatore David Cameron sia con il capo dell'opposizione laburista, Ed Milliband. «Ha un'agenda impressionante ed è pieno di energia, noi lo sosteniamo», ha guaito quest'ultimo. «Abbiamo le nostre differenze, ma siamo ugualmente riformatori dell'Europa. Per creare lavoro lui vuole fare come abbiamo fatto noi... Misure ambiziose, sostengo l'impegno di Matteo», ha gioito l'inquilino di Downing Street. Proprio mentre la ministra Mogherini ricordava che tra Matt e Barack (Obama, yes) «si è creata una chimica».

Il problema, evidente, sta allora nella fisica. Quella di un Paese appesantito persino da retaggi intellettualoidi, come forse direbbe il premier (di sicuro lo pensa), che si ostinano a tirarlo giù quando lui fa il massimo per tirarci su. Se per vedere la disoccupazione scendere sotto il 10 per cento è questioni di mesi (poi si corregge, di qualche annetto), l'abrogazione del Senato si giocherà a breve. «Per capire come va a finire, dobbiamo aspettare il mese di aprile. Cioè, o bene bene o male male». Renzi sembra sinceramente curioso dell'esito, e fa bene bene a tenersi stretto l'accordo con Forza Italia, facendo confermare alla ministra Boschi che per il governo, nell'ordine, viene prima la legge elettorale e poi la riforma del Senato, così come chiesto da Fi. «Anche se poi - ha precisato la ministra - è il Senato che decide». Nel frattempo, in un'intervista preregistrata a Ballarò, il premier ribadiva che l'accordo con Berlusconi «regge». «Non so cosa faranno forze più piccole. Adesso vediamo chi è riformista solo a parole e chi anche con il voto».

La sfida è continua, l'alta tensione creata ad arte dalla comunicazione del premier pare funzionare soprattutto per quel partito di coraggiosi che è il Pd (anche se ieri almeno Civati s'è lasciato andare: «A me il suo aut aut mi sembra una cretinata, un Senato di secondo livello con consiglieri e sindaci che vanno e vengono è una caricatura, un pasticcio»). Dopo anni di vacche magre, però, i pidini tremano di fronte alla prospettiva di dover tornare alle urne e/o a quei leader pallelesse votati alla sconfitta. I mugugni si tengono nel segreto dei corridoi, tranne modeste eccezioni. Come la renziana Camilla Fabbri che rivolge addirittura un appello al premier: «Matteo ascoltaci, o al Senato il dissenso si allargherà». Anche se Renzi di Vietnam non vuol sentir parlare, è nel catino di Palazzo Madama, oltre che nella giungla delle commissioni, che la ricerca di un cospicuo gruzzolo di voti si farà presto spasmodica. Ecco perciò il ragazzo-prodigio definire «affidabile» Forza Italia e pure gli altri: «A livello teorico è così, sono obbligato a crederci». A questo si può credere, considerato che le minacce sulle elezioni anticipate sono rientrate («Parliamo di cose serie»), relegate all'ormai bolso giochino del «se non vogliono fare le riforme, non pensino che farò la bella statuina».

Bella statuina forse no, ma a farlo restare Statua di sale qualcuno di sicuro già ci pensa.

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