Con un premier in tilt ci aspetta un 2013 nero

A sinistra non esiste una strategia, a destra non c’è politica. E le riforme del Professore si stanno arenando

Con un premier in tilt ci aspetta un 2013 nero
Ci siamo, via, di­ciamocelo. Quat­tro mesi e mezzo fa eravamo tutti appecoronati appresso ai tecnocrati di Bruxelles, ai professori al governo. Napo­litano propone. Berlusconi dà il via libera. Bersani acconsente. Casini esul­ta. Noi italiani, po­polo sornione, sentiamo d’istinto che ar­riverà una bot­ta secca, pensio­ni e tasse e chissà cos’altro,ma intan­to facciamo una specie di riverenza con riserva, la crisi è bestiale e la cosa pas­sa. A pochi tra noi sembra­va più giusto votare, ma era­vamo soli soletti. Alla fine anche noi pochi abbiamo fatto come i tanti: stiamo a guardare per un po’, vedia­mo che succede, se fanno buone cose gliene rendere­mo merito. Ora ci siamo, ri­comincia il solito ballo, e senza pudore lo chiamiamo «ritorno alla politica».

In una prima fase i partiti giravano di notte, mascherati. Non si facevano vedere insieme. La dittatura commissaria eurotecnica proce­deva a colpi di voti di fiducia su provvedimenti ratificati nel gran consiglio, nei summit del­l’Unione, alla Bce di Francoforte, previa con­sultazione. Sbrigativa, anche. «Che ne pensa­te? Vi piace? Se vi piace, bene, se no, pazienza. Noi tireremo diritti». Si era capito subito che questi lavoravano all’ingrosso, facevano cose che anche il precedente governo aveva fatto o impostato, e che erano da decenni parte del programma riformista di ogni governo serio. Anzi, anche di quelli poco seri come il Prodi due o il Berlusconi tre. Si era capito subito che Monti era un tipo a posto o quasi, che aveva ambizioni superiori a quelle di un giro a palazzo per poi farsi un tour elettorale, che lo spread dipendeva fino a un certo punto dalla scarsa cre­dibilità internazionale del­­l’Italia (leggi: risate di Me­rkel e Sarkozy, e carnevalata antiberlusconiana di soste­gno). Lady Spread poteva scendere per via del riformi­smo forte e non concertati­vo della tecnocrazia installa­ta a Roma, poteva scendere perché Mario Draghi innaf­fiava le banche di liquidità e, allora, comprava qualche ti­tolo di Stato. Ma non era mai stato Berlusconi da solo il problema, la questione del modello su cui si era costruito l’euro era quella decisiva, era arrivata la stretta dei mercati e della Germa­nia sui Paesi ad alto debito e a bassa crescita, l’Unione non garantiva la sua moneta, la Ban­ca centrale non difendeva i titoli espressi in eu­ro dichiarandosi prestatore di ultima istanza, l’Europa era una serie di Paesi diseguali e nel mercato mondiale ognuno doveva farcela da sé, senza svalutare, e dunque noi e altri erava­mo chiamati a pagare, pagare, pagare il debito pubblico per non finire come la Grecia, e la re­cessione inevitabile da austerità era ed è una delle modalità di pagamento, la peggiore e la più insana e la più autolesionista per tutti, ma quello era ed è.

Ora siamo allo sportello delle tasse, alla re­strizione del prodotto interno lordo, i media ri­lanciano l’Italia del suicidio di imprenditori e lavoratori, l’immagine e la realtà della botta si confondono in un’inevitabile dilagare della pietà per noi stessi, anche giusta, che però si fa subito indulgenza,ricerca di una via d’uscita: un tanto ai sindacati per la aborrita libertà d’im­presa (articolo 18), un tanto agli imprenditori per l’agognata flessibilità in entrata, e mesi di concertazione dissimulata producono lentez­za del commissario, incrinatura delle sicurez­ze riformatrici, un clima da impaludamento che coincide con la perdita dello stato di grazia dell’esecutivo dopo i cento e più giorni. Ci sia­mo, via, Repubblica è all’opposizione beata, vuole vendette sociali e televisive, vuole un go­verno di sinistra eterodirigibile a Palazzo Chi­gi; i manettari arrestano e smerdano ulterior­mente politica e affarismo, Grillo fa comizi per prendere il posto di Bossi, le opposizioni sono imbrigliate, la maggioranza di divisione nazio­nale esce allo scoperto e fa campagna elettora­le con largo anticipo. Ci siamo, è il revival, il festival, e lo chiamiamo ritorno alla politica.

Ci siamo, ma dove siamo? Da nessuna parte. Non c’è strategia a sinistra, solo trucchi e prag­matismi demagogici alla Bersani. Non c’è una politica a destra, Berlusconi se ne sta quieto sot­to lo scudo di Monti, che non ha dato le soddi­sfazioni cercate ai suoi nemici e persecutori, e intanto il Pdl fa quel che può, cioè poco. Rifor­me elettorali che traballano, misure costituzio­nali ovvie ma chissà. Misure sul finanziamen­to della politica, e chissà pure quelle.

Ma ci so­no le condizioni per un ritorno alla politica che abbia un significato? Che ci faccia fare un pas­so avanti rispetto ai governi che non governa­no e alle opposizioni che non ce la fanno a sostituirli? Siamo in grado di aggredire le cose, sul piano europeo e mondiale, guidando di nuovo in nome del popolo sovrano un’Italia indipen­dente e capace di curare le sue malattie? Secon­do me no. Sono pessimista. Il 2013 a oggi mi sembra un incantesimo, roba da maghi e astro­logi. Spero di sbagliarmi.

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