Giovedì è stato «il giorno di Renzi», e «io lo ho rispettato», dice Pier Luigi Bersani. Ieri il segretario del Pd ha iniziato a replicare al suo sfidante, e lo ha fatto con grande fair play: «Quello che ho sentito merita qualche approfondimento, ma penso che possa venirne fuori un dibattito sereno». Bersani lascia ad altri, anche tra i suoi, il compito di usare le armi pesanti contro il sindaco di Firenze (Stefano Fassina che gli rinfaccia di essere «andato ad Arcore» come una Minetti qualsiasi, Enrico Rossi che lo accusa di essere «vacuo» e soprattutto «molto moderato» eccetera), mentre lui si mostra dialogante. E su quell'appello ai delusi del centrodestra lanciato da Renzi e tanto criticato nel Pd Bersani ragiona pacato: certo, «il voto va chiesto a tutti gli italiani», ma dicendo «senza ambiguità» che «deve essere un voto di cambiamento rispetto ad anni di berlusconismo».
Neppure sulle regole delle primarie, che saranno decise nell'Assemblea nazionale del 6 ottobre, i due sembrano avviati a litigare. Sono d'accordo sul mettere un filtro potente alle candidature (chi vuole correre dovrà raccogliere decine di migliaia di firme di iscritti, col risultato che difficilmente Civati o Laura Puppato o Boeri saranno davvero in campo), e trattano sulla «certificazione» dei votanti alle primarie e sul doppio turno. Ma in fondo anche a Bersani fa gioco che la partecipazione sia larga e non troppo filtrata, se vuole legittimare la propria candidatura. Insomma, la verità è che i due avversari sono uniti da un obiettivo che li accomuna: sono gli unici, nel Pd, a volere che le primarie si tengano davvero. Renzi ha tutto da guadagnare ad affermarsi come protagonista nazionale, sia che vinca e sia che perda. E Bersani sa che le chance di essere davvero il candidato premier di un centrosinistra in cui, sotto sotto, molti puntano le proprie carte su un Monti-bis o simili, dipendono tutte da una sua forte legittimazione popolare. Tutti gli altri sono contro: da D'Alema a Franceschini, da Veltroni a Marini, da Fioroni alla Bindi, nessuno vuole una gara dalla quale, comunque vada, usciranno solo due protagonisti. Se vincesse Renzi, gran parte di loro si dovrebbe forzatamente avviare alla pensione. Se vincesse Bersani, cosa di cui il segretario è piuttosto convinto, comunque ci sarebbe un nuovo e vigoroso commensale al desco Pd. «Immagina solo il tavolo in cui si decideranno le liste elettorali per il 2013 - dice a mo' di esempio un parlamentare di lungo corso - al quale Renzi, forte della sua percentuale di voti alle primarie, reclamerà la propria quota di candidati: tutti posti in meno per i vari capibastone. Un terremoto». E agli attuali assetti interni del Pd sia Bersani che Renzi - sia pur con toni diversi - vogliono entrambi dare uno scrollone. Tanto che ieri il capo del Pd ha lanciato un avvertimento chiaro: lui vuol giocarsi la partita del governo, e il segretario non lo farà più. E il testimone dovrà passare alla «nuova generazione»: «Per quel tanto che tocca a me la ruota girerà. L'anno prossimo ci sarà il congresso e c'è nel Pd tutta una generazione nuova pronta governare». Bersani cerca di stoppare le grandi manovre, anche in casa Pd, per spingere verso una legge elettorale proporzionale (cioè senza premio di maggioranza alla coalizione), che svuoterebbe di senso le primarie: «Solo un bambino può pensare che la soluzione proporzionalista farebbe il bene del Paese», invece, dice, «sarebbe una palude».
Mentre combatte in casa propria contro gli avversari espliciti, come Renzi, e quelli occulti, Bersani rischia però di ritrovarsi senza più uno schema di gioco: la sinistra radical, che attraverso l'alleanza con Vendola doveva essere addomesticata e piegata alle necessità di governo, viene invece inevitabilmente risucchiata verso i lidi antagonisti di
Di Pietro e della Fiom; con la Cgil e pezzi di Pd che a loro volta risentono l'attrazione fatale per l'opposizione. E Casini, viste le incertezze della partita, si smarca per tenersi le mani libere, per ogni eventualità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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