Roma - Sotto processo per un omicidio volontario che forse non è neppure un omicidio. Andrà in Corte d'Assise a difendersi dall'accusa di aver ucciso la sua compagna senza mai essere stato in carcere un giorno e, soprattutto, particolare davvero anomalo, senza essere mai stato neanche interrogato dagli inquirenti in veste di indagato. In un processo dove c'è un cadavere, poche altre certezze, e una giuria popolare che dovrà prima di ogni altra cosa stabilire come è morta la vittima.
Una vicenda paradossale, che ha come protagonista Pedro Pascual Ventura, portiere presso un hotel di via Merulana, a Roma, di origine dominicana ma da tempo in Italia. Dal 16 giugno del 2010 quando in un appartamento di Pietralata venne ritrovata agonizzante Claudia Colaprisco, 43 anni, ancora non sono chiare le cause della morte della donna, avvocato civilista, al terzo mese di gravidanza. Per i consulenti dello stesso pubblico ministero, che sostiene l'accusa, la vittima sarebbe morta con certezza per cause naturali. Eppure il processo si farà lo stesso. E sarà un processo per omicidio. Lo scorso 20 settembre, infatti, Ventura è stato rinviato a giudizio e il 16 dicembre ci sarà la prima udienza davanti alla I Corte d'Assise di Roma. Sarà lì, in aula, che la Procura dovrà convincere i giudici che Claudia Colaprisco è stata assassinata e spiegare come, prima ancora di dimostrare che ad ucciderla è stato il marito. Di solito le cause della morte sono pacifiche, in questo caso dovranno innanzitutto essere accertate, altrimenti sarà impossibile procedere.
Era stato Pedro Ventura a dare l'allarme con una telefonata al 118 in cui chiedeva aiuto dopo aver trovato la donna, con il bambino in grembo, per terra incosciente. Aveva tentato anche di rianimarla con il massaggio cardiaco, seguendo le indicazioni telefoniche dell'operatore, ma Claudia Colaprisco era arrivata in ospedale già morta.
Lì per lì neppure gli uomini della squadra mobile avevano pensato ad un delitto, sembrava proprio che il decesso fosse stato provocato da cause naturali. Poi, però, la polizia raccolse alcuni elementi sospetti, che convinsero il pm a considerare il marito della vittima l'indiziato numero uno.
Comincia così una vicenda giudiziaria perlomeno bizzarra. La Procura apre un fascicolo per omicidio. Un primo gruppo di consulenti nominati dal pm arrivano alla conclusione che la donna è morta per uno scompenso cardiaco.
«Non si evincono aspetti morfologici attribuibili a un'asfissia provocata da una condotta umana violenta», scrivono. Poi, però, c'è un supplemento di indagini che non esclude l'asfissia come possibile causa della morte. Tanto basta al pm per costruirci intorno l'ipotesi accusatoria: l'indagato, esperto di arti marziali, avrebbe tramortito la compagna con un colpo di karate, poi l'avrebbe soffocata con un cuscino. Su questi presupposti, però, la richiesta di custodia cautelare viene respinta dal gip. Anche la Cassazione si mette di traverso, respingendo l'impugnazione della Procura Generale contro il rigetto della richiesta d'arresto da parte del gip. Ma la Procura è andata avanti. E, senza mai chiamare l'indagato per interrogarlo, è arrivata ad ottenere il rinvio a giudizio dopo che una perizia disposta dal gup aveva concluso che ci fossero i sintomi dello strangolamento.
Perizia effettuata non in sede di incidente probatorio e dunque inutilizzabile in dibattimento. Al quale si arriverà, dunque, senza nessun documento che accerti le cause della morte.
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