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Ma quali sindaci democratici: hanno vinto nonostante il Pd

I dirigenti del partito fanno a gara per prendersi il merito dei successi nelle città. Però da Treviso a Barletta sono stati premiati i candidati più distanti dall'apparato

Ma quali sindaci democratici: hanno vinto nonostante il Pd

Daje, certo. Ma daje de che? L'incontenibile entusiasmo manifestato dai massimi esponenti del Partito democratico dopo il clamoroso cappotto rifilato dal centrosinistra alle comunali ha avuto l'effetto surreale di trasformare una vittoria ottenuta sul campo nel simbolo di qualcosa che alle ultime elezioni semplicemente non è mai accaduto: il trionfo della classe dirigente del Pd. Detta così potrebbe sembrare un'affermazione forte, perché in fondo in tutti i capoluoghi in cui si è andato a votare i candidati appoggiati dal Pd si sono classificati sul gradino più alto del podio.

Eppure, mettono di buon umore quegli esponenti del Pd che con convinzione sostengono che la vittoria del centrosinistra sia l'emblema del buon funzionamento della grande coalizione (lo ha detto Enrico Letta) e sia il frutto del formidabile lavoro fatto da Bersani durante la campagna elettorale (e a nessuno che venga in mente che forse è qualcosa in più di una coincidenza che le cose sono cominciate ad andare bene per il Pd un minuto dopo il passo indietro di Bersani).

La storia delle ultime amministrative, in realtà, dimostra che i candidati vincenti del centrosinistra hanno vinto, paradossalmente, nonostante la presenza di questo Pd, e si sono imposti non solo perché favoriti dalla decisione di fare le primarie ma anche perché i candidati scelti dagli elettori rappresentano un establishment di nuovo conio, che si è affermato in quanto espressione di una discontinuità con la classe dirigente che governa il Pd e pure il paese. Gli esempi sono molti. A Roma Ignazio Marino (oggi sostenitore di Renzi) ha fatto tesoro del suo essere un fiero nemico della grande coalizione. A Treviso Giovanni Manildo (anche lui legato a Renzi) si è affermato anche grazie alla sua lontananza dall'apparato Pd. A Siena ha vinto Bruno Valentini, candidato vicino al sindaco di Firenze, e non esattamente vicino all'apparato Pd. A Vicenza, anche qui, è stato confermato un renziano come Achille Variati. E poi ci sono i casi di Ancona con Valeria Mancinelli, di

Avellino con Paolo Foti, di Iglesias con Emilio Gariazzo, di Imperia con Carlo Capacci, di Isernia con Luigi Brasiello, di Massa con Alessandro Volpi: tutti candidati civici, indipendenti ed estranei dalla vecchia classe dirigente del partito, premiati dagli elettori anche per essere, un po' come nel passato sono stati Pisapia a Milano, De Magistris a Napoli, Zedda a Cagliari, simbolo della rottamazione di quello stesso gruppo di comando del partito che esulta per quella vittoria alle comunali avvenuta però più o meno alla loro insaputa dagli stessi organi dirigenti del Pd (fantastico il sindaco di Imperia, che nella sua biografia ufficiale, per mettere le cose in chiaro, scrive che «Non è stato, non è, e non sarà mai iscritto ad alcun partito»).

Storie diverse sono quelle di Catania, Viterbo, Brescia, Pisa e Lodi, dove hanno prevalso candidati vicini all'apparato (a Catania un franceschiniano, a Viterbo un fioroniano-sposettiano, a Brescia un lettian-renziano, a Lodi e a Pisa un bersaniano). E storie diverse sono anche quelle di città come Barletta, dove ha prevalso un candidato anche qui svincolato dalle correnti come Pasquale Cascella (e che semmai l'unico collegamento che ha lo avrebbe con il Quirinale, dove fino a qualche settimane fa era portavoce di Giorgio Napolitano). Tutte storie che insomma dimostrano che i candidati hanno per lo più vinto per due ragioni: o perché appoggiati dal rottamatore dell'apparato Pd (Renzi) o perché emersi in campagna elettorale come volti alternativi al suicida apparato del Pd.

Eppure nel Partito democratico i vecchi dinosauri esultano come se il merito della vittoria alle elezioni fosse di Franceschini, di D'Alema, di Veltroni, di Bindi, di Bersani, di Letta (che tra l'altro non ha mai partecipato a nessun dibattito elettorale) o come – comica delle comiche – se il merito del trionfo fosse di Guglielmo Epifani (alla guida del Pd da un mese). Tutto comprensibile, e in fondo ogni scusa è buona per i vecchi rinoceronti per dire che le cose non vanno così male e che si può continuare così a navigare senza stravolgere gli equilibri. Comprensibile. Così come però è comprensibile che nel centrodestra gli sconfitti, nonostante siano stati per l'appunto sconfitti, un po' se la ridono sotto i baffi pensando che i vecchi dinosauri del Pd credono davvero, con un paio di comuni conquistati, di aver definitivamente smacchiato il giaguaro.

Daje compagni.

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