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Quando l'abitudine è un vizio mascherato

Ecco, per esempio, io cinque secondi fa mi sono acceso una sigaretta. Avevo voglia di tabacco? No. Avevo voglia di nicotina? No. Avevo voglia di catrame e altre porcherie? No. Più semplicemente, dovevo iniziare a scrivere questo articolo, e senza sigaretta un articolo non parte. È un mio vizio o una mia abitudine?
Un tale diceva che «le abitudini sono vizi in giacca e cravatta». Si vestono bene, si rendono appetibili, si profumano, hanno modi gentili. Però, esattamente come in vizi, se concedi loro troppi spazi nella tua vita, alla fine te lo mettono in quel posto. L'abitudine è un abito, un abito mentale. Senza abitudini, ce ne andremmo in giro nudi, e allora, forse, acquisiremmo l'abitudine al nudismo. Non se ne esce: tutto è abitudine, perché la forza dell'abitudine è come «l'amor» di Dante, «move il sole e l'altre stelle» (un giorno qualcuno scoprirà che persino gli astri seguono pedissequamente la loro orbita soltanto per abitudine...).
Quindi il problema è: stante che senza abitudini non ci alziamo neppure dal letto (a proposito, voi mettete a terra prima il piede destro o il sinistro?), possiamo farle un po' ragionare, queste benedette e severissime istitutrici della nostra esistenza? Possiamo mediare con loro affinché non ci schiavizzino? Possiamo ottenere qualche momento di pausa, qualche piccola vacanza che ci affranchi dal giogo cui ci legano? No, no e poi no. Quando disse «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», il buon Antoine-Laurent Lavoisier si riferiva alla materia di cui è costituito il mondo, ma il suo celebre aforisma calza a pennello anche alle abitudini, figlie dei nostri pigri neuroni. Perché in fondo l'abitudine non è che un riflesso pavloviano: dopo il caffè viene la sigaretta, dopo cena non si lavano i piatti, dopo la vacanza viene lo stress da vacanza...
A Charles Duhigg, giornalista del New York Times, le abitudini sono servite per vincere il Pulitzer, sezione «Explanatory Reporting». Ci è arrivato in un modo... diciamo così singolare. Quando era inviato di guerra in Irak, a Baghdad partecipò a un esperimento che provò come, cambiando le abitudini della gente, è possibile gestire le rivolte di piazza. Da allora, le abitudini sono diventate la sua abitudine, fino al punto da scriverci sopra un libro che in inglese s'intitola The Power of Habit, ma in italiano è stato, giustamente, tradotto correggendo in parte il tiro: La dittatura delle abitudini (Corbaccio, pagg. 430, euro 18). È una specie di saggio-thriller dove l'oggetto dello studio e i... colpevoli sono proprio loro, le abitudini. Vi si spiega, a proposito di Iraq, come si possano sedare i tumulti usando l'arma del fast-food, oppure come si possano stabilire record di nuoto nonostante (o grazie a) l'acqua negli occhialini, o ancora come facciano i diabolici pubblicitari, da sempre fedeli alleati delle nostre abitudini, a individuare le donne incinte (pur senza essersi coricati con loro) ben prima dei loro mariti e quindi a mettere in moto la «macchina» dei vari prodotti per i bebè in arrivo.
In teoria, il sistema che regge la dittatura delle abitudini senza che noi lo si sostenga con i nostri voti è elementare, spiega Duhigg: «un'abitudine è una formula che il nostro cervello segue automaticamente: quando vedo un SEGNALE, svolgerò una ROUTINE allo scopo di ottenere una GRATIFICAZIONE». Quindi i casi sono due: o cambiamo la nostra percezione del segnale, oppure cambiamo la nostra routine. E siccome cambiare la percezione del segnale è un lavoraccio da far scoppiare la testa, ci conviene cambiare la routine che lo segue come una conseguenza ineludibile. In altri termini: meglio cambiare abitudini. Chiodo schiaccia chiodo.

Tutto sommato, anche sopravvivere è un'abitudine.

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