Quei giornalisti collusi con le toghe

Certi cronisti non cercano lo scoop, ma ricevono sottobanco fotocopie giudiziarie e intercettazioni

Quei giornalisti collusi con le toghe

Sì, la vera storia d'Italia degli ultimi venti anni è stata accuratamente occultata agli italiani delle ultime generazioni e non per caso e non per distrazione, ma per distruzione. Ieri leggevo quel che scriveva Piero Ostellino sulla presa di potere da parte di un segmento della magistratura (e non si tratta soltanto di toghe «rosse» ma anche di alcune toghe aristocratiche) e mi sembrava l'integrazione di quel che avevo scritto il giorno prima quando ho raccontato che la grande corruzione, Tangentopoli, era operante, nota e perfettamente tollerata anzi protetta già dagli anni Settanta: i magistrati facevano semplicemente finta di non vederla, salvo scatenarsi a comando tredici anni dopo. Portavo come prova l'incauta e a suo modo eroica confessione di Franco Evangelisti, che spiegò per filo e per segno nel 1980 quel che succedeva, ma che nessuno voleva vedere.

Poi ci fu il take over, la presa del potere reale da parte di un segmento di magistratura, che però non agì da solo perché creò una sintonia operativa con un simmetrico segmento del giornalismo. Un nuovo giornalismo che si sparse come la gramigna soffocando e sostituendo il nostro vecchio e onesto giornalismo d'inchiesta. Il nuovo giornalismo aveva altre caratteristiche. La prima è che non fa mai scoop propri, ma li fa sempre e soltanto sulle carte giudiziarie passate sottobanco. Il bravo giornalista diventa un esportatore di verbali, è un cane da riporto delle intercettazioni specialmente quando sono illegali (so di che parlo perché sono stato illegalmente intercettato e subito diffuso dal nuovo giornalismo).

Fu così portata a maturazione un'operazione di genere nuovo in politica, equivalente per molti versi alla presa del potere attraverso forme di violenza, cioè al colpo di Stato. Curzio Malaparte in Tecnica del colpo di Stato spiegava nel 1931 come le rivoluzioni di per sé siano incapaci di prendere il potere, se manca il meccanismo del colpo di Stato. Lenin porta le masse nelle strade, ma non prende il Palazzo d'Inverno. Il Palazzo d'Inverno lo prende Trotsky con un una ventina di armati con cui entra, taglia le gole, blocca i telefoni, distrugge le comunicazioni, liquida le guardie.

Da noi non c'è stato un colpo di Stato in senso classico, ma una forma sofisticatissima di presa del potere attraverso il combinato disposto formato dalla sintonia fra alcuni giornali e giornalisti e alcuni magistrati.

Io appartengo alla generazione di vecchi giornalisti che quando cercavano e trovavano lo scoop - l'intervista che fa cadere un ministro, spiegare un mistero irrisolto - si sforzavano di dare una descrizione di una realtà che attendeva di essere raccontata. Quando Giampaolo Pansa affondava gli stivali nel fango del Vajont e descriveva la catastrofe dall'altezza della melma, faceva quel genere di giornalismo. Così erano (eravamo) allora i cronisti, questo chiedevano i direttori, di questo si compiacevano gli editori vedendo il loro prodotto venduto per la qualità. Le divisioni politiche e le faziosità ci sono sempre state, ma quel che accadde a partire dall'inizio degli anni Novanta costituisce una mutazione progressiva e una deformazione caricaturale del giornalismo, già agonizzante per la nascita della cronaca in streaming e del telefonino.

Ha ancora ragione Ostellino quando parla di quei direttori di giornale che diventano commissari e trasmigrano da una testata all'altra sorvegliando l'attuazione della linea politica. Ed è fuori di dubbio che Berlusconi, fin da subito, anzi da un bel po' prima che si desse alla politica, era l'obiettivo: il cinghialone numero due, da abbattere in continuità con l'abbattimento di Craxi. Ecco dunque che la natura stessa del giornalista che conta subisce una mutazione. Il suo talento è misurato non dall'intraprendenza e dalla sua autonomia, ma dalle fotocopie giudiziarie che crescono nelle sue tasche.

Alcuni magistrati si trasformano in feudatari circondati da giornalisti affamati amici che li lusingano, pronti a disporre su loro istruzione alcune bombe a orologeria. Il lettore non avrà difficoltà a immaginare qualche nome che io però non faccio, perché si tratta di gente che usa la querela come nel West si usava la Colt e vince tutte le cause dissanguando chiunque osi illuminarlo con un raggio non conformista.

Un grande editore mi ha raccontato davanti al registratore che la star di una famosa Procura si era ficcata in testa che una star del giornalismo (che lavorava per il grande editore che me lo raccontava) possedesse delle foto compromettenti di Berlusconi durante le cene ad Arcore. La star della procura era furiosa perché convinta che la star del giornalismo con cui era in rapporti strettissimi, le avesse negato l'ambito trofeo che considerava dovuto. La foto non esisteva, la star del giornalismo non le aveva nascosto nulla, ma l'intreccio, la commistione erano talmente inestricabili e patologici e isterici da impressionare persino quel grande editore.

Dietro il nuovo giornalismo fatto d'archivi - di cui è certamente campione Marco Travaglio e questo è anche un suo merito - viaggia l'intendenza del giornalismo moralista, d'invettiva, quello che con autorevolezza autoreferente manda al confino i matti liberi liberali e anarchici dopo averli marchiati con il «cono d'ombra» (un'invenzione sinistra e felice del fondatore di Repubblica) e crea di fatto un'antropologia, una fattoria degli animali in cui - di nuovo, sulle orme di Orwell - i maiali sono sì uguali, ma molto più uguali degli altri.

Quel giornalismo, come genere e come tecnica, come abilità e come potenza politica e propagandistica, è totalmente sconosciuto al campo opposto, quello che per comodità possiamo anche chiamare «berlusconiano», che si è sempre lasciato massacrare e mettere al bando, senza trovare mai una linea di contrasto capace di difendersi e contrattaccare ad armi pari.

In questo modo, più di mezza Italia è stata delegittimata come canagliesca e cafona, rozza e torbida, secondo il comandamento che la vuole dominata dalla «pancia»; mentre dall'altra parte, nel mondo dei buoni, omologati dai magistrati e dai giornalisti che esercitano il potere di fatto, si muovono folle virtuose che sembrano i nuovi Hare Krishna coi loro mantra.

Il giornalismo moralista è un'altra novità: fino a vent'anni fa noi giornalisti raccontavamo i fatti, poi sono arrivati i predicatori con i loro carri, le pozioni, le trasmigrazioni televisive sulle reti omologhe e analoghe più che analogiche e questa seconda novità ha chiuso la tenaglia: magistrati che nutrono giornalisti assicurandone la fama e ricevendone fama (doppio rapporto referenziale) accompagnando ed esaltando inquisizioni, creando eroi e mostri anche al di là di quanto il mondo reale suggerirebbe e allevando letteralmente con il loro biberon una, e forse ormai due generazioni di italiani immemori, esentati dal contatto diretto con la realtà perché il sistema appena descritto sostituisce perfettamente la realtà, o la corregge come un barbiere: sfumature basse, satira omologata,

invettiva del calibro d'ordinanza e il gioco è fatto. Tutto ciò, e molto di più, è accaduto negli ultimi vent'anni, quelli della lobotomia, una psicochirurgia che con un bisturi sottilissimo disabilita una parte del cervello.

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