Non è andata bene, e questo si sapeva. Ma in Sicilia la caduta del Pdl non ha superato, se pur di poco, il punto di non ritorno, cosa che era nel novero delle possibilità. Attaccandosi all’aritmetica, e al netto dell’astensione record, la somma delle percentuali ottenute dai partiti e movimenti riconducibili al vecchio centrodestra (oggi divisi da faide di partito) perde meno di quanto abbia lasciato sul campo il centrosinistra che ha vinto grazie al fatto che si è presentato unito. Ma questi sono ragionamenti da esperti, direi da maniaci, che lasciano il tempo che trovano. Il fatto è che anche in Sicilia si ammaina la bandiera senza per altro issarne una destinata a sventolare a lungo per la fragilità dei vincitori.
Angelino Alfano, rompendo un silenzio di due giorni, accetta la sconfitta e guarda avanti. Dopo lo strappo di sabato sulla linea ufficiale del partito, quasi una sconfessione, Berlusconi gli rinnova (pur senza apparire) la fiducia, un po’ come sta succedendo per Allegri, l’allenatore del Milan che non riesce più a vincere. E lui, Alfano, non rompe, si toglie un sassolino dalla scarpa («Il via libera al governo Monti l’ha dato il Cavaliere »), fa suoi con inedita forza alcuni temi cari all’ex premier ( giustizia, Europa germano- centrica, mani libere sulle alleanze) e annuncia di puntare tutto sulle primarie di partito per una definitiva legittimazione. Sono testimone che i rapporti personali tra Alfano e Berlusconi restano affettuosi, ma il problema non è questo. Come dimostrano il successo di Grillo (trasportato a livello nazionale il voto di ieri varrebbe attorno al 25 per cento) e la marea di astensioni, gli elettori, anche quelli dormienti, si aspettano dal centrodestra parole d’ordine forti, chiare e fatti conseguenti. Non piace che la gerarchia di partito abbia come punto di riferimento Monti e Napolitano, sentire Maurizio Lupi dire al Tg3 che Berlusconi non comanda più e che il governo dei tecnici non si tocca è devastante, le frizioni tra una parte di ex Forza Italia ed ex An sono praticamente irrecuperabili, troppe le ambiguità sul ricambio degli uomini e sulla lotta ai privilegi e ai costi della Casta.
Tutti questi nodi saranno sciolti dalle primarie di dicembre? Possibile, ma solo in parte. Certificare i rapporti di forza dentro il partito può essere utile per il futuro degli aspiranti leader, meno per i problemi dei cittadini. Comperare tempo serve a poco. Il partito tutto, per dirla alla Berlusconi, o recupera quel «quid» che lo distingueva sul mercato elettorale o muore a prescindere da chi lo guiderà. Ben vengano le primarie, ma serve di più, molto di più, e il tempo stringe. E la strada, come si evince, non è quella di considerare Silvio Berlusconi come un pensionato. Se ieri si è perso, non è certo per lo sfogo di sabato, parole chiare che semmai hanno evitato l’irreparabile, e neppure per il candidato, Nello Musumeci (semmai vittima di un sacrificio annunciato). È che la gente non ha capito bene che cosa è oggi il Pdl, con chi vuole stare e che cosa vuole fare. Speriamo che il 16 dicembre, giorno di primarie, non sia troppo tardi.
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