L'ha chiamato subito: quando ha fatto il numero del Quirinale, Berlusconi era ancora nei corridoi del Nazareno. «Presidente, è andata bene». Giorgio Napolitano ha apprezzato. «Sono contento, Matteo. Ora però stai attento a non perderti pezzi della maggioranza». Poi in serata, dal treno che lo portava a Firenze, Renzi gli ha pure spedito una mail con i dettagli dell'intesa. Enrico Letta invece ha dovuto telefonare a zio Gianni per sapere com'era andato l'incontro. Il premier ha fatto buon viso: del resto, meglio commissariato che dimissionario. Ha pure provato a mettere il cappello sopra l'accordo, spargendo la voce, prontamente respinta da Renzi, di una mediazione di Palazzo Chigi. Il giorno dopo Letta fa comunque spargere ottimismo. Se non farà cadere il governo, se non comporterà una rottura con Alfano, il patto Renzi-Berlusconi non è un pericolo, è «una buona notizia». Sul Colle la «soddisfazione» ha qualche motivo in più. Nessun commento ufficiale, la trattativa è ancora aperta e ci sono diverse variabili da sistemare. Però l'agenda di Matteo, sottoscritta dal Cav, raccoglie in pieno «la svolta» che da tempo Napolitano chiede alla politica. Non solo legge elettorale, ma anche fine del bicameralismo, taglio del numero dei parlamentari riscrittura del Titolo V della Carta, quello che riguarda le autonomie. Tutti interventi considerati necessari e urgenti per far ripartire la «macchina ingolfata».
Intanto c'è da sostituire il Porcellum, così come vuole la Corte costituzionale. Il capo dello Stato non ha obiezioni sul sistema spagnolo modificato al quale si sta lavorando. Semmai esiste qualche residua preoccupazione su un cerchio ancora a quadrare. D'accordo, la stabilità fine a se stessa non è più un valore assoluto, ma per il Quirinale in ogni caso occorre «tenere insieme l'approvazione delle riforme con la continuità di governo». Insomma, detto in parole povere, bisogna trovare il modo di «tenere dentro Angelino». Quanto al dialogo con Berlusconi, nessuno scandalo. Anzi. Napolitano, che dopo la condanna ha continuato a definire il Cavaliere «leader indiscusso del centrodestra», è infastidito dalle polemiche sollevate dalla minoranza del Pd: se le riforme devono essere «ampiamente condivise», è chiaro che non si può fare meno di lui.
Si profila dunque una doppia maggioranza. Mentre Letta e i centristi presidiano il governo, le larghe intese rinascono attorno alla legge elettorale. Se l'operazione andrà in porto, l'attuale coalizione non rischierà la crisi ma sarà costretta a galleggiare per un annetto ancora. A meno che gli eventi, la volontà dei protagonisti e l'incombente rimpasto non spingano a unificare le due coalizioni, perché, come scrive Eugenio Scalfari, «Berlusconi è rientrato nella maggioranza».
E qui agli occhi di Letta si ripresenta il solito problema: cosa faranno Ncd e Scelta civica? Matteo riuscirà ad imbarcarli della riforma elettorale? Come si risolverà la questione delle liste bloccate? Come salvare i piccoli partiti?
Il premier ha molte speranze ma anche molti più dubbi, però ha deciso di andare a vedere. E in effetti non ha molte alternative. Non può sabotare il dialogo promosso dal segretario del suo partito. Non può ostacolare le riforme istituzionali reclamate dal presidente della Repubblica.
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