diQuando ci si avvicina alla Rai, qualunque cosa si dica o si faccia rischia di diventare un pasticcio: perché il difetto, come si suol dire, sta nel manico, cioè nel rapporto osmotico e stratificato nel tempo che la Rai da sempre intrattiene col sistema politico, di cui è di volta in volta strumento e vassallo, ufficio di collocamento e megafono. Ma questa volta il paradosso è particolarmente vistoso: convocare un vertice dei segretari di partito con il presidente del Consiglio allo scopo di allontanare i partiti dalla Rai. È quanto doveva accadere l’altro giorno a palazzo Chigi, prima che Alfano facesse saltare il tavolo.
In realtà, come tutti sanno, l’oggetto della riunione era un altro: perché alla famosa riforma della governance della Rai - come si usa dire nell’epoca dei tecnici - nessuno crede sul serio, né Bersani né Casini che pure continuano ad invocarla, quantomeno perché il Consiglio d’amministrazione scade a fine mese e per fare una legge, in Italia, se tutto va liscio ci vuole almeno un anno. Lo scopo della riunione (per la parte relativa alla Rai) era invece molto più prosaico e concreto: trovare un accordo per sostituire al più presto il direttore generale e il direttore del Tg1 con figure meno legate alla precedente maggioranza, e comunque più gradite alla precedente opposizione.
La politica è spesso un gioco delle parti, e il Pd quando parla di Rai non sfugge a questa regola. Da un lato, infatti, Bersani chiede una riforma radicale che allontani i partiti dal governo più o meno diretto dell’azienda e minaccia, in caso contrario, di disertare le prossime sedute della Commissione di vigilanza, chiamata tra non molto a rinnovare il Cda. Dall’altro lato, però, chiede a Monti un intervento diretto del governo (in forme peraltro non chiare) per rimuovere due direttori sgraditi: come se il Tg1 e la direzione generale (e non invece, tanto per dire, il Tg3 e la presidenza) fossero gli unici luoghi bisognosi, per usare un termine caro al segretario del Pd, di un po’ di «manutenzione». Insomma: fuori tutti i partiti dalla Rai, tranne il mio.
Non sfugge a nessuno la delicatezza della questione: la Rai non ha a che fare con lo spread e dunque non rientra nell’emergenza che Monti è stato chiamato a fronteggiare, ma il suo Cda è in scadenza e qualcosa dunque bisognerà fare. Una proroga significherebbe, nei fatti, rinviare tutto a dopo le elezioni del 2013: è ragionevole che al Pd questa prospettiva non piaccia. Ma è altrettanto ragionevole che il Pdl non accetti un disarmo unilaterale delle sue postazioni a viale Mazzini, dal momento che dispone tuttora della maggioranza relativa in Parlamento.
Ma, soprattutto, è molto difficile far digerire ad un’opinione pubblica sempre più disgustata dai partiti, e sempre più perplessa sul senso di un servizio pubblico che impone il canone ma poi si comporta esattamente come un network commerciale, l’idea che debbano essere Bersani, Casini e Alfano a decidere un’altra volta chi comanda in Rai.
Vedremo nei prossimi giorni se il Pd, in assenza di un accordo politico che al momento proprio non si vede, sceglierà davvero l’Aventino rifiutandosi di partecipare, come ha ripetuto Bersani anche l’altra sera su Sky, alla «spartizione» del prossimo Cda di viale Mazzini.
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