Rivoluzione finita, a Ingroia arriva il conto

Senza seggi e isolato dalle toghe. Il Guardasigilli: azione disciplinare per le frasi contro la Cassazione

Rivoluzione finita, a Ingroia arriva il conto

I tempi della rivoluzione, arancione o di qualunque altro colore, sono tramontati. Ora per Antonio Ingroia, il pm che sognava da premier, è il momento della resa dei conti. Quella politica, con l'addio polemico di Luigi De Magistris e Antonio Di Pietro dopo il flop elettorale, quella giudiziaria con il Guardasigilli Paola Severino che avvia l'azione disciplinare e gli contesta, parola per parola, le esternazioni a tutto campo dell'ultima stagione. Aveva il vento in poppa, il procuratore aggiunto di Palermo, sfogliava la margherita tenendo i suoi fan con il fiato sospeso: «Faccio politica, ma non scendo in politica». Intanto, fra un'inchiesta, un convegno e un pamphlet, attaccava tutto e tutti. Ora il ministro della Giustizia chiede alla procura generale della Cassazione di valutare le bordate sparate da Ingroia dopo la sentenza della Cassazione che aveva annullato la condanna di Marcello dell'Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Un colpo per il pm siciliano che aveva risposto senza mezzi termini: «La mia cultura della prova viene dagli insegnamenti di Falcone e Borsellino. Quella del presidente Aldo Grassi non so». Per il ministro, Ingroia ha «leso l'immagine della magistratura» e ce n'è abbastanza per «estendere l'azione disciplinare», già avviata per i precedenti attacchi alla Consulta.
Lui, stavolta, reagisce in modo misurato: «Sono stupito, le mie erano solo critiche legittime e non attacchi personali». Ingroia non è più quello incontenibile di qualche mese fa, quando si lasciava andare a commenti di fuoco su un fronte estesissimo, come un generale impegnato contemporaneamente contro Berlusconi, un classico del suo repertorio, e i vertici dello Stato. Era l'epoca in cui da Palermo il magistrato ingaggiava un braccio di ferro, temerario secondo molti osservatori, con il capo dello Stato le cui conversazioni erano finite nell'inchiesta Stato-mafia. Sembrava che niente o nessuno potessero fermarlo, poi invece è arrivato il verdetto della Consulta che ha dato ragione alla presidenza della Repubblica, poi il tonfo ai seggi e ancora la doppia azione disciplinare per le stilettate alla Consulta e alla Cassazione.
Oggi Ingroia scende dalle barricate e sfoggia un lessico conciliante: «C'è stato un travisamento delle mie parole. Non ho inteso offendere o insultare nessuno. Ritengo di aver esercitato solo un diritto di critica che può anche essere stato aspro». Non è un passo indietro e l'aspirante premier non si cosparge il capo di cenere, ma duelli e sfide sono archiviati. In queste settimane non proprio fortunate Ingroia ha dovuto subire l'invettiva furibonda di Ilda Boccassini, che non tollerava il suo tentativo di paragonarsi a Falcone, ed è entrato in rotta di collisione con un magistrato autorevole come Giancarlo Caselli che non gli ha perdonato il troppo rapido disimpegno dalla prima linea in Guatemala. Troppe scivolate. Meglio una stagione di tregua, prima di uscire dalla terra di mezzo dell'aspettativa. A questo punto Ingroia deve decidere se rientrare nei ranghi o continuare la battaglia senza truppe in Parlamento. Altri ex colleghi sono sbarcati a Roma e l'ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso è stato catapultato, nientemeno, alla presidenza di Palazzo Madama.

Ingroia ha dovuto ingoiare la pillola: «È notorio che ci sono state fra noi chiamiamole divergenze. Ma non ne vorrei più parlare. Il passato è passato». Il suo però continua a far discutere. E rischia di finire sotto processo.

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