Roma - L'effetto annuncio elevato a sistema, l'esortazione euforica e ottimista costantemente appiccicata al nome «Italia», la propaganda trasformata in «missione» per conto della patria. In principio fu il «salvaitalia» montiano. Era il tempo della dittatura dello spread e per accreditare l'emergenza e giustificare quello strano ribaltone bisognava scolpire a chiare lettere il senso dell'emergenza. E così tecnici, supertecnici, saggi e task force, paracadutati in ruoli a loro estranei, tirarono fuori quel nome da ultima spiaggia per dare un senso di necessità alla consueta raffica di tasse e lubrificare misure lacrime e sangue decisamente ruvide all'impatto mediatico.
Da allora la caccia al «claim», al titolo immediato e allo slogan «chewing-gum», capace di appiccicarsi all'immaginario collettivo e lasciare perlomeno la sensazione di una frenetica attività governativa in corso d'opera, è diventata irrefrenabile. Siamo passati ad esempio attraverso il «crescitalia» montiano, lo slogan coniato per battezzare la fase due del governo dei tecnici, dal suono non più brutale come il precedente ma dolcemente promettente, utile anche a mostrare al Paese la faccia buona dei tecnici, poco disposti a vestire il solo abito di freddi sacerdoti dell'austerity. Perché la tentazione politica, si sa, è sempre dietro l'angolo. Gli effetti - o meglio i mancati effetti - sulla crescita di quel decreto sono noti, con previsioni di sviluppo tristemente ridimensionate rispetto agli obiettivi.
L'esperienza montiana, però, non fu sufficiente a convincere i politici a dare un po' di tregua al nome «Italia». Passate le elezioni, (non) smacchiati i giaguari, chiuso il teatrino delle consultazioni tra Pier Luigi Bersani e Beppe Grillo, ecco il governo di Enrico Letta. Dopo una pausa di qualche mese arriva il piano «Destinazione Italia» che nei desiderata del presidente del Consiglio avrebbe dovuto risolvere il problema del «drammatico bisogno di investimenti diretti esteri» nella Penisola. Tempo sessanta giorni ecco il bis: avanti con «ImpegnoItalia», tentativo di auto-rianimazione in extremis, una sfida indirizzata a Matteo Renzi con tanto di cronoprogramma, un attimo prima della defenestrazione. Un documentone di oltre 50 pagine che aveva l'ambizione di fungere da programma di legislatura. Gli slogan, però, non sempre salvano la vita. E il Rottamatore fiutata la possibilità di mettere piede a Palazzo Chigi, cancellò in un battibaleno il famoso «enricostaisereno» e decise di affondare il colpo, dando il benservito al collega.
Altro giro, altra corsa e altro premier. Inizia l'era della gioiosa macchina da slogan, già preannunciata da «L'Italia cambia verso», il refrain della campagna delle primarie. Matteo Renzi batte con facilità ogni record di promesse nell'unità di tempo, un trionfo di titoli, «hashtag» e parole d'ordine mediatiche. Perché le emozioni contano e per i fatti si vedrà. E così avanti con #lavoltabuona, la #svoltabuona, #cambiaverso, #semplificaitalia, #italiabella. Perché per il presidente del Consiglio la misura più utile per far ripartire l'Italia è soprattutto lo «storytelling», l'ultimo suo mantra, una mutuazione dal marketing statunitense, in sostanza una narrazione che migliori la capacità di promuovere le eccellenze del Paese.
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