Se dicono di voi che assomigliate a una lince o a un'aquila è molto probabile che abbiate una vista fuori dal comune e l'accostamento ai due animali è certamente un complimento. Se il vostro comportamento viene paragonato a quello di una iena, è molto probabile che non abbiate commesso una buona azione. Se qualcuno va dicendo in giro di voi che siete un gufo, la faccenda si complica un tantino, perché questo rapace notturno è famoso, nei fumetti e nella narrativa in genere, per avere doti di saggezza e riflessività. Non di meno, nel linguaggio moderno la «gufata» si riferisce a chi porta sfiga e lo fa spesso volutamente.
Dipingere un comportamento o una caratteristica anatomica di una persona, paragonandoli a quello di uno o più animali è un esercizio che probabilmente data dalla comparsa dell'uomo sulla terra. Un uomo che corre veloce può anche essere paragonato a Carl Lewis (forse il più famoso centometrista della storia), ma allora Lewis a chi può essere paragonato? Basta guardare correre un levriere o, ancora meglio un ghepardo e l'accostamento viene naturale, mentre se uno, nella corsa, è una frana e si trova a suo agio con un divano è più facile che il termine di paragone sia quello della tartaruga o, per chi ha maggiori conoscenze zoologiche, del bradipo.
Pochi giorni orsono, la Cassazione ha dato la stura alla sua italica fantasia, formulando una sentenza di quelle che, ogni tanto, insinuano il dubbio che questi alti magistrati si divertano un sacco nella loro torre eburnea. Questa volta, la Corte è stata incaricata di giudicare Giuseppe V. di Castrovillari, il quale, durante un banale litigio, ha apostrofato Leonardo B. dandogli del «barbagianni» e del «babbuino». L'uomo, è stato assolto in primo grado, ma condannato in appello. La corte suprema lo ha giudicato colpevole con la seguente motivazione. «Gli epiteti che evocano gli animali hanno un'obiettiva valenza denigratoria in quanto, assimilando un essere umano a un animale, ne negano qualsiasi dignità in un processo di reificazione e di assimilazione a una res comunemente ritenuta disgustosa o comunque di disumanizzazione».
Io mi chiedo se questi altissimi magistrati abbiano mai visto un barbagianni, almeno in un documentario di Piero Angela. Sicuramente si interessano di faccende culturalmente più adeguate al loro lignaggio, ma mi permetto di dire che sbagliano. Avessero visto un barbagianni non avrebbero mai condannato quell'uomo. Rapace notturno di nobili fattezze, con le penne screziate di un ruggine iridescente, vola silenzioso nella notte da tempo immemore, aiutando l'uomo a difendere i granai da topi e arvicole. I rapaci notturni d'altronde sono uccelli di sangue blu: l'allocco era nello stemma dei Locatelli bergamaschi, mentre la civetta era il simbolo di Atena.
Il problema è che le sentenze della Cassazione fanno legge. Ora dunque attenti a dire che «mia suocera è una cornacchia», che «quella è un'oca giuliva», che uno «si è abbuffato come un maiale» e che la punta «ha tirato un rigore da cani».
Avessi saputo della futura sentenza avrei querelato legioni di bambini quando mi dicevano che ci vedevo «come una talpa», invece di scazzottarmi e prenderle il più delle volte perché mi dovevo togliere gli occhiali. Penso poi con orrore a Vittorio Sgarbi, quando sentirà il rumore cigolante della porta della cella chiudersi definitivamente alle sue spalle per avere proferito quel «Capra, capra, capra ».
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