Sono i sassolini a diventar valanghe, sassolini che rotolano fuori dalle scarpe. A venticinque anni dalle picconate di Cossiga, sull'architettura dello Stato s'incrociano ancora vanghe, cazzuole e vecchie carriole. Il punto vero dell'incredibile - non inusuale - ultimo scontro nelle istituzioni, sarebbe questo: per chi e per che cosa è sceso in campo il presidente del Senato, Pietro Grasso?
Dicono che, secondo consolidata consuetudine, spetti all'inquilino di Palazzo Madama dire le cose che il Quirinale non può (ancora?) dire. Grasso, secondo consuetudine, nega fermissimamente. «Con il Capo dello Stato siamo vicini, ma della riforma del Senato non ne ho parlato». Non ne ha parlato, ma si sa come i dubbi costituzionali siano pane quotidiano, lassù sul Colle. Sospetta più modestamente Valter Veltroni, invece, che «Grasso esprime il malumore che c'è tra i senatori». Ed è chiaro che al tacchino non piaccia vedere l'accensione del forno. Il via vai di senatori negli uffici di Grasso a Palazzo Giustiniani è diventato quasi ressa, nelle ultime settimane. Specie da parte dei vertici del gruppo senatoriale del Pd, partito di Grasso ma anche (teoricamente) del premier Renzi. «Presidente, solo tu puoi farlo... Noi no, ne verrebbe fuori un putiferio». Così si assiste alla strana situazione per la quale - rottamati vecchi leoni, rottamate giovani quaglie - a capo dell'opposizione interna del Pd s'è ritrovato l'ultimo fiore della società civile messo all'occhiello: per l'appunto, Grasso. Il quale un po' nega («Parlo solo a nome di me stesso, non porto opinioni di altri»), un po' fa da paravento («Ho sentito molti senatori che mi hanno detto finalmente qualcuno che osa dire le cose»). La sua critica è stringente, totale, irrimediabile. Provata dapprima con le buone, in un pranzo con la giovane ministro Boschi. Pranzetto delle beffe, come spesso accade con questi trentenni d'assalto. «Dicevano che era solo una bozza e che sarebbero stati accettati contributi... ma non è successo». Ecco quindi la pubblica reprimenda: «Il Senato proposto è una contraddizione in termini, meglio abolirlo piuttosto che una riforma che non funziona, le riforme vanno ponderate, non si fanno a colpi di fiducia, un monocameralismo associato all'Italicum mette a rischio la democrazia». Allora? «So di essere impopolare, certamente. Ma mi sembra di essere come quel bambino che dice Il re è nudo. Aiuto Renzi, perché i numeri mi pare non ci siano. A me non sta bene di salire sul primo treno che passa...».
Più che passare, il treno sfreccia incurante dei passaggi a livello. Il premier è imbufalito, alla vigilia del Consiglio dei ministri dal quale dovrebbe uscire la riforma, perché la situazione s'ingarbuglia. E da ultimo Grasso - presagio di qualcosa di peggio - che si mette di traverso, con 25 senatori del gruppo pidì pronti a uscire allo scoperto: «Renzi non ci chieda - scrivono in un documento - di essere meri esecutori cui non resta che alzare la mano in aula». Il premier, però, non sente ragioni rispetto a un gruppo che sente «estraneo, non scelto da me». Il terreno sotto i piedi si fa franoso. «Rispetto il Senato e rispetto Grasso - dice -, ma il vero modo per difendere il Senato è non fare una battaglia conservatrice, tesa a mantenere lo status quo. Non mollo».
Ma neppure Grasso molla: «Non sono un parruccone né un conservatore». Debora Serracchiani lo vorrebbe richiamare all'ordine di partito, perché «ti abbiamo eletto noi». È qui che si capisce come il dentifricio sia uscito dal tubetto, e chissà se ci rientrerà mai.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.