Si ricomincia daccapo. Caso Meredith, atto quarto. La Cassazione ha stabilito che l'assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito non sta in piedi, l'ha annullata e ha disposto la celebrazione di un nuovo processo d'appello che si terrà a Firenze. Dunque, nell'Italia della giustizia lenta e pasticciata ecco un nuovo, clamoroso colpo di scena che ha fatto immediatamente il giro del mondo: l'omicidio di Meredith Kercher, la studentessa massacrata a Perugia la notte del 1 novembre 2007, è un caso che ha appassionato e diviso la stampa anglosassone: la vittima era inglese, la principale imputata è americana. E da Seattle Amanda si dice «delusa», mentre Raffaele, sarebbe «distrutto».
Difficile capire, senza le motivazioni del verdetto che verranno pubblicate nelle prossime settimane, cosa abbia spinto la Suprema corte a riaprire il caso, ma che la vicenda non camminasse più sui binari della routine si era capito già lunedì. Prima, la durissima requisitoria di Luigi Riello, il rappresentante dell'accusa, che si era spinto ad affermare: «I giudici di merito hanno smarrita la bussola». Poi l'attesa infinita della sentenza, prevista per la serata e rimandata alla mattina seguente. «Una cosa simile - aveva detto preoccupata Giulia Bongiorno, difensore di Sollecito - non mi era mai capitata». Puntuale ieri la conferma del presentimento. Il dibattimento ripartirà a Firenze perché a Perugia c'è un solo collegio di corte d'assise d'appello. Ora Riello sostiene che riesamineranno un po' tutti i temi, ed è probabile che la magistratura fiorentina disponga un'ulteriore perizia. Proprio la perizia d'appello era stata la chiave di volta dell'assoluzione, dopo la pesantissima condanna in primo grado per Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni: gli esperti avevano affermato che le prove utilizzate in primo grado non erano state raccolte in modo scientifico e dunque dovevano essere cestinate.
Certo, resta lo sconforto per un altro processo, l'ennesimo, che si avvita in un testacoda di assoluzioni e condanne che paiono una lotteria sconcertante. E l'opinione pubblica italiana deve sempre più fare i conti con procedimenti che si chiudono in un assordante nulla di fatto oppure, se arrivano alla conclusione, ci arrivano quasi per caso, come per il delitto dell'Olgiata, dove l'ennesimo esame del Dna ha finalmente inchiodato il maggiordomo filippino e ha fatto evaporare l'incredibile dietrologia cresciuta come gramigna sul tronco dibattimentale. E invece tante storie di orrore restano impunite, sia pure a un centimetro dal traguardo: nel massacro di Serena Mollicone ad Arce gli investigatori dibattono da anni di pista A e pista B, in un polverone che non si riesce a diradare. E per la tragedia di Chiara Poggia, a Garlasco, tutti gli spunti portano al fidanzato di Chiara, Alberto Stasi, assolto dopo essere stato fermato, e adesso a un passo dal verdetto della cassazione e dall'uscita di scena definitiva.
La nostra giustizia arriva tardi, spesso con giorni e giorni di ritardo, raccoglie le prove muovendosi con la grazia
di un elefante in cristalleria, imbastisce processi lunghissimi e verbosi, spesso funestati da scivolate e gaffe, come il fuorionda dell'altro giorno a Taranto nel processo a Sabrina Misseri, con i giudici pronti a scambiarsi opinioni che avrebbero fatto bene a tenere per se. La giustizia imprigiona, poi fa retromarcia, condanna e assolve portando imputati e parti civili in un paesaggio di montagne russe senza orizzonte. Il caso di Mohamed Fikri, indiziato per la spaventosa morte di Yara, è un paradigma del disastro tricolore. Fikri viene addirittura fermato al largo, con l'abbordaggio alla nave su cui era salito, poi viene rilasciato con tante scuse.
E ancora non si riesce a capire come tradurre dal'arabo la frase su cui è stata costruita l'inchiesta.
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