Politica

Si compra i borghi diroccati Ne fa «alberghi diffusi» da re

Ha cominciato dall'Abruzzo, ospitando Alberto del Belgio e la regina Paola. Poi un hotel nei Sassi di Matera. "In Italia ci sono 2mila paesi abbandonati"

Si compra i borghi diroccati Ne fa «alberghi diffusi» da re

Il luogo è questo: Santo Stefano di Sessanio, Parco nazionale del Gran Sasso, 1.250 metri di altitudine, provincia dell'Aquila, 121 abitanti. Il milanese Daniele Kihlgren, 46 anni, ci capitò per sbaglio nel 1999. Aveva già alle spalle una vita segnata dal divorzio dei genitori, dalla droga, dalla malattia, da mille avventure estreme. Vagabondava per l'Abruzzo in sella alla sua Honda 400: «M'ero perso». Vedere il borgo medievale e innamorarsene fu tutt'uno. L'indomani ci ritornò per contrattare l'acquisto delle case di pietra, abbandonate e diroccate. A quell'epoca venivano via per meno di 100.000 lire al metro quadrato. L'unico edificio in buone condizioni, il rinascimentale Palazzo delle Logge, gli fu ceduto per 150 milioni di lire.

Oggi per queste stesse spelonche i prezzi oscillano dai 4.000 ai 7.000 euro il metro quadrato e Kihlgren è proprietario di un quinto del paese medievale. L'ha trasformato in un hotel da 27 camere e 55 posti letto che si estende per 13 tra vie e piazze, in altrettante case, una distante dall'altra. Si chiama Sextantio, dall'antico toponimo del primo insediamento romano, che sorgeva a 6 miglia dal centro abitato più vicino, Peltuinum, sull'altopiano di Navelli dove cresce lo zafferano. È un «albergo diffuso», però mi è capitato di sentirlo storpiare in «albergo sfuso» da un gruppetto di turisti giunti in paese. Il concetto è difficile da afferrare. Eppure si basa su un principio molto elementare, che questo visionario mecenate, laureato in filosofia teoretica, ora vorrebbe imporre in tutto l'Abruzzo, per elevarlo a faro mondiale in materia di conservazione del patrimonio storico minore: l'inedificabilità. Il presidente della Regione, Gianni Chiodi, e il sindaco, Antonio D'Aloisio, conquistati dall'amore che il forestiero manifesta per la loro terra, lo assecondano. «Inedificabilità significa rispettare l'esistente, usare solo materiali locali, non costruire nulla, non aggiungere nulla, non cambiare nulla, non aumentare le cubature, non modificare gli arredi, al massimo riparare e adattare».

Una stalla è diventata la reception dell'albergo. Nelle camere il riscaldamento a pavimento corre sotto i sassi, il cotto o il legno originali. Le lenzuola sono quelle di lino che le mamme ricamavano per i corredi matrimoniali delle figlie. I copriletti colorati escono dal telaio di una tessitrice assunta per questo lavoro. Nel ristorante si mangia a «chilometro zero». Liquori, tisane, prodotti di bellezza e biancheria sono prodotti dai laboratori artigianali che hanno riaperto nel borgo. Né televisore, né frigobar, né telefono. Uniche concessioni: la rete wireless per Internet, i bagni con gli idrosanitari disegnati da Philippe Starck e le pulsantiere d'acciaio di Eclettis, «sembrano quelle di Star Trek, io avrei lasciato gli interruttori di porcellana, m'è toccato litigare con l'architetto, nelle stanze avrebbe voluto farmi mettere anche le poltrone Frau».

Un'utopia diventata business, senza un solo quattrino di contributi statali o europei, «non ho usufruito neppure dei fondi per la ricostruzione dopo il terremoto che nel 2009 ha devastato L'Aquila». Il «cave crusader», crociato della grotta, secondo la definizione del New York Times, la sta replicando altrove. Nella parte più antica dei Sassi di Matera ha ricavato Le Grotte di Civita, 18 stanze. E tra L'Aquila, Ascoli Piceno, Teramo, Isernia e Chieti ha comprato immobili in altri villaggi abbandonati - Frattura Vecchia, Serra, Rocca Calascio, Martese, Rocchetta al Volturno, Montebello al Sangro - da restaurare con l'aiuto di David Chipperfield, il curatore della Biennale Architettura in corso a Venezia. Un investimento complessivo di oltre 50 milioni di euro, «in larga parte prestati dalle banche, chissà quando li restituirò».

La prima volta che Kihlgren ci arrivò, Santo Stefano di Sessanio si riconosceva da lontano per la Torre Medicea. Quando la pastorizia e la transumanza erano fiorenti, la Signoria di Firenze controllava da questo punto strategico la via della lana verso il Tavoliere delle Puglie. Il sisma ha raso al suolo il monumento, danneggiando il 48 per cento delle abitazioni e provocando danni per 60 milioni di euro. Ciò non ha impedito a re Alberto del Belgio e alla consorte Paola di venire a Sextantio per un soggiorno. Idem gli attori George Clooney e Kasia Smutniak, il produttore cinematografico Domenico Procacci e la modella Kiera Chaplin, nipote di Charlot. Segno che il fascino del luogo rimane intatto.

Santo Stefano di Sessanio è risorto per merito di Kihlgren, che ha assunto 25 dipendenti e ha creato lavoro per altre 300 persone nell'indotto. Adesso, sulla scia del suo «albergo diffuso», si contano ben 23 fra locande e bed and breakfast. La gente ha ricominciato a fare figli. I primi tre bambini, dopo mezzo secolo di spopolamento, sono Giulia, Ginevra e Giulio Cesare, non a caso nati dai titolari dell'Ostello del Cavaliere, l'unica pensione che era rimasta in paese.

So che s'è interessato al suo esperimento anche Giampiero Pesenti, il magnate del cemento. Un bel paradosso, considerato che l'Italia è la prima produttrice in Europa di questo materiale che lei disprezza.

«A Pesenti interessa molto l'inedificabilità per il suo valore culturale ma anche economico. Mi ha detto che il progetto di Sextantio dovrebbe essere al primo posto nell'agenda del premier, insieme con un ministero ai Beni storici e al Turismo. E di che altro può campare il nostro Paese? In Italia ci sono 2.000 borghi abbandonati e oltre 15.000 in disfacimento che hanno perso il 90 per cento della popolazione».

Che cosa cercano gli ospiti nelle apparenti scomodità di Sextantio? Vengono qui a espiare?

«I viaggiatori settecenteschi del Grand Tour, penso a Goethe, inseguivano la classicità. Quelli ottocenteschi, come lo scrittore Edward Lear, cercavano un'Italia fatta anche di italiani. I turisti di oggi sono i pronipoti di questa sensibilità, vanno a caccia del Belpaese minore».

Lei invece ha fatto il giro del mondo.

«Mio nonno, figlio di un pastore protestante, si chiamava come me, Daniele Elow, un secondo nome tipicamente vichingo. Era un imprenditore svedese della cellulosa. Portò in Italia la Ericsson. Come console di Svezia a Genova durante il Ventennio, firmò decine di salvacondotti che impedirono la deportazione di ebrei e antifascisti. Per questo a Gerusalemme gli è stato intitolato un albero nel Giardino dei giusti. Suo figlio Bertil, mio padre, nato nel 1926, sposò mia madre, Rosella Milesi, famiglia borghese di cementieri milanesi con latifondi nel Bergamasco. Beveva forte. Quand'era ubriaco, assumeva le sembianze di Jack Nicholson in Shining. Se ne andò di casa quando avevo appena 2 anni. Il resto è venuto di conseguenza».

Cioè?

«Alle medie i preti già mi avevano cacciato dall'istituto San Zaccaria perché facevo parte di una banda chiamata Gli Scheletri. Al liceo Parini, e poi al Leonardo da Vinci, i sinistrorsi mi davano del fascista e mi gonfiavano di botte perché difendevo il figlio del bidello, l'unico che veniva a scuola in giacca e cravatta, mentre loro, i figli di papà con i jeans sdruciti, lo canzonavano. A 18 anni partii per Londra. Volevo imparare l'inglese, ma subivo il fascino irresistibile dei posti putridi. Il quartiere di Soho era quello che preferivo. M'interessavano i muri scrostati, più che la pornografia o le prostitute. Un giorno una bruttona indicibile mi chiese di offrirle una Coca-Cola. Secondo il suo magnaccia, quella consumazione, parlo della bibita, valeva 100 sterline. Era un nero enorme. Mi sembrò ragionevole pagargliene 10. Mi tramortì di cazzotti. Le ho sempre prese, persino dalle donne».

Dalle donne?

«Guardi qua». (Solleva la manica della camicia: sul braccio sinistro si vedono varie cicatrici di tagli simmetrici). «Dieci coltellate. Ho cercato di occultarle con questo tatuaggio rosso a forma di àncora. Me le inferse una mia fidanzata. Un'altra m'inseguiva sulla piazza del paese e mi appioppava schiaffoni che mi lasciavano per una settimana l'ecchimosi delle cinque dita sulle guance. E consideri che lei era alta un metro e 50 mentre io peso come Mike Tyson e ho tirato di boxe».

Che cosa non funziona fra lei e le donne?

«Sono troppo buono, vengo scambiato per un agnello sacrificale. Dopo un po' mi stufo. O scappano loro o scappo io. Va meglio con i cani. Clementina, la mia prima femmina di bulldog, mi soggiogava con la sua intelligenza. Pensi che era in grado di riconoscere le donne per le quali nutrivo un interesse solo di tipo sessuale e le mordeva. Invece legava subito con quelle di cui ero innamorato. Ormoni a parte, uomini e donne non sono fatti per stare insieme».

Perciò con chi sta?

«Sono l'unico essere umano che ha vissuto dentro un cementificio. Adesso mi divido tra Roma e Spoltore, provincia di Pescara, dove, a parte Melone, il bulldog che ha preso il posto di Clementina, tengo per casa un tizio che si crede il presidente degli Stati Uniti, poi un marocchino con la moglie e i due figli e a volte Maria, la mia nuova fidanzata di Chieti. In un basso dei Quartieri spagnoli di Napoli ero stato adottato da Concettona, una camorrista dalla gentilezza innata. Ho abitato lì per un lungo periodo: sa, io sogno di diventare un cantante neomelodico partenopeo. E lì mi sono preso il virus dell'Hiv e l'epatite C per uno scambio di siringhe fra drogati».

Ha l'Aids?

«Sono un caso clinico: la mia viremia è pari a zero. Ma non ho mai nascosto la malattia perché volevo sdoganarla dal pregiudizio morale, che diventa una comoda attenuante offerta ai sieropositivi per commettere atti da codice penale».

Dalla tossicodipendenza com'è uscito?

«La chiamerei tossicofilia. È cominciata intorno ai 18 anni. Me ne sono tirato fuori con la mia volontà. Era una storia sempre uguale. La droga ha perso interesse per mancanza di nuovi stimoli».

Eravamo partiti dai suoi vagabondaggi in giro per il mondo.

«Arrivai ad Aqaba, sul Mar Rosso, dopo un viaggio in auto da Milano alla Giordania durato otto mesi. Siccome non vedevo una donna nuda da 180 giorni, raggiunsi la spiaggia di Eilat con una barca a remi. I soldati israeliani mi presero per un terrorista islamico. Memore di quanto era capitato da quelle parti al povero Lawrence d'Arabia, a opera del bey turco, me la cavai facendo il gesto avanti e indré col pugno e dicendo loro: “I don't want the arab treatment”, non voglio il trattamento arabo. Cascarono per terra dalle risate e mi liberarono. Al Sens invers, un trucido locale di Brazzaville, in Congo, un bastardo mi puntò il coltello, intimandomi: “Mettiti in ginocchio e prega”. Mi salvai offrendo la giugulare e dicendogli: il mio collo è qua. Siamo diventati amici. Mi caccio talvolta in situazioni estreme perché chi si occupa di cooperazione internazionale molto spesso non lo fa. Non vado nel Terzo mondo per salvarmi l'anima, ma per cercare di dare una mano. A Cuba credo d'essere stato l'unico straniero che è riuscito a farsi mantenere dalle puttane anziché pagarle. Io e mio fratello Edoardo avevamo finito i soldi. Fummo accolti da due jineteras, che ci ospitarono per 15 giorni in casa loro all'Avana. Purtroppo Edoardo non c'è più. È morto tragicamente a 29 anni. Forse questo spiega tante cose della mia vita».

Suo padre l'ha più rivisto?

«Morto pure lui, di cirrosi epatica. Gli ho tenuto la mano nell'ultima settimana di agonia. Un attimo prima di spirare, con l'altra mano ha tentato di toccare il culo all'infermiera bergamasca che lo assisteva».

Oggi vive per l'«albergo diffuso».

«Sì. Però se vado da un investitore e gli spiego che posso fargli guadagnare il 300 per cento in tre anni, la mia faccia da filosofo e il mio rigore etico squalificano l'aspetto economico del progetto Sextantio».

Muri a parte, in che consiste il suo rigore etico?

«Mi scoccia parlarne. In questo momento sto regalando un'assicurazione sanitaria gratuita a 150.000 abitanti del Ruanda. Poi vorrei farlo anche in Burundi. Posso permettermelo, perché qualcosa da mio nonno ho ereditato. Trovo insopportabile che i benefattori politicamente corretti alla Bill Gates destinino ogni anno 900 dollari per ciascun africano affetto da Aids e lascino morire per altre infezioni milioni di bambini innocenti che si potrebbero salvare con una sola scatola di antibiotici da 3 dollari».

Lei non è politicamente corretto, questo è sicuro.

«Sono contrario alle maggioranze bulgare e alle loro sottili violenze. Mi sono simpatici i perdenti. Quando gli sfigati erano i fascisti, provocavo i rossi inneggiando al Duce. Adesso che i comunisti sono spariti dal Parlamento, mi sono iscritto a Rifondazione comunista. Però il giorno in cui Silvio Berlusconi è stato costretto da Giorgio Napolitano a dimettersi per lasciare il posto a Mario Monti, sono andato davanti a Palazzo Chigi a coglionare quei cretini di manifestanti che insultavano il premier uscente. A momenti mi linciavano. Se va avanti così, mi sa che dovrò attaccarmi a Silvione».

Senta Kihlgren, ho letto che vorrebbe lasciare il mondo migliore di come l'ha trovato. Pensa di riuscirci?

«È difficile. Ci sto provando».

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti