Politica

La solita ideologia: assolvere chi spara

Quando Laura Boldrini dice che la disoccupazione, l'emergenza lavoro, trasformano la vittima in carnefice cade in un vecchio luogo comune da anni '70

Non c'è una linea d'ombra tra l'uomo che spara e quello che cade. Non in questo caso. Quando Laura Boldrini dice che la disoccupazione, l'emergenza lavoro, trasformano la vittima in carnefice cade in un vecchio luogo comune da anni '70. Se uno perde il lavoro diventa povero, insicuro, non vede più il futuro, sta male, parecchio male e pensa ai figli, alla famiglia, a una vita che scivola via. Questa crisi può ridurti uno straccio o farti indossare la coperta pesante del fallimento. Qualcuno si ammazza per questo. Più di qualcuno. Ma se compri una pistola, prendi un treno per Roma, vai a Palazzo Chigi e spari, una, due, tre volte e spari per uccidere, a bruciapelo, perché hai visto una divisa e speravi di colpire un politico e visto che non c'eri ti accontenti, non lo fai per disperazione. No, davvero. L'equazione meno lavoro, più dolore e più rabbia, uguale ti sparo non esiste. È un alibi scritto male.

I carnefici hanno sempre una «loro» ragione. C'è chi spara per odio, chi per amore, chi per la razza, chi perché vuole fare la rivoluzione, chi per vendetta, chi perché è scritto nella storia, chi per farsi rispettare e ubbidire, chi perché vuole essere il migliore e chi perché ha perso tutto al gioco. In questo gioco dei perché ci sarà sempre qualcuno disposto a trovare un motivo per giustificare il carnefice. Solo che la frase «ha sparato perché si sentiva un fallito» stona parecchio. E stonano tante frasi così. Un'altra equazione è che se aumenta la povertà e la disillusione nel paese cresce, in modo spesso esponenziale, anche la violenza. Probabile, ma l'idea di ammazzare è comunque un passo in più. Si spara perché si pensa di averne diritto. Perché qualcuno ti ha convinto che non è poi così sbagliato farlo. Perché si respira un clima che tollera il gesto estremo, quasi fosse una tentazione diffusa o perfino un dovere, magari un atto di coraggio. Si spara insomma quando i tempi sono maturi e c'è l'ingrediente giusto. È quello che in tutti i sistemi politici del mondo si chiama crisi di legittimità. È quando cominci a vedere il potere come un usurpatore. Negli anni di piombo, per esempio, i terroristi erano una minoranza, ma erano circondati da quella zona grigia che capiva le loro ragioni, qualche volta li fiancheggiava, altre volte restava in silenzio o se la cavava con il classico né con lo Stato né con le Br. Tanti, tantissimi, pensavano che la rivoluzione fosse imminente. La Dc era un regime bianco e il Pci un burocrate lesso, fino al tradimento finale del compromesso storico.

Attenzione. Anche le teorie liberali, democratiche e libertarie prevedono un caso in cui la rivolta è legittima. Si spara per la libertà individuale, contro il Leviatano, contro il totalitarismo, contro la dittatura. E qui c'è tutto l'equivoco di questi anni. Troppo spesso in questa indefinita seconda repubblica si è spesa la parola regime. Troppi finti martiri si sono messi ad arringare dalle piazze e dalla tv. Ora il coro si fa sempre più forte. Ora l'indignazione è uno sport da bar. Ora il professor Becchi sente l'onda giusta per dire «se qualcuno tra qualche mese prende i fucili non lamentiamoci, abbiamo messo un altro banchiere all'economia». E lo fa paragonando Napolitano a Chavez. Allora il problema è tutto qui, fare i conti con la realtà. Si può contestare una classe dirigente, si può votare per cambiarla, si può non votare per totale disistima, ma una cosa è certa: i regimi sono un'altra cosa. È questo l'appunto da fare al presidente della Camera. Il carnefice non è vittima e non spara perché ha perso il lavoro. Il carnefice indossa gli occhiali sbagliati.

E comunque la scelta di sparare è tutta e solo sua.

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