Politica

Sono tornati i forcaioli, la solidarietà è già finita

Il sostegno unanime verso il direttore condannato a 14 mesi di carcere ormai si è sciolto in mille rivoli. Via ai distinguo tra ironie e invettive

Dopo un attimo di smarrimento - 14 mesi di galera per un articolo sembrerebbero troppi persino in Corea del Nord - i corvi hanno ricominciato a volare fingendosi, come sempre fanno, colombe candidamente impegnate nella difesa della giustizia, della sua imparzialità e della sua virtuosa necessità. Così, la solidarietà ad Alessandro Sallusti, dapprima unanime, si è rapidamente sciolta in mille rivoli, imboccando di volta in volta la strada dell'ironia, della requisitoria, della polemica politica, dell'invettiva ad personam. Come se difendere Sallusti fosse di per sé imbarazzante, sconveniente, politicamente scorretto e in definitiva disdicevole.

Marco Travaglio, che esce sempre vittorioso dalle cause che lo riguardano, dedica l'editoriale del Fatto Quotidiano di ieri a confutare l'editoriale dell'altroieri, solidale almeno in parte con Sallusti. Al direttore del Giornale, scrive Travaglio, sarebbe bastato chiedere scusa al giudice diffamato e pagare una multa, che peraltro il suddetto giudice, essendo un grand'uomo, «avrebbe destinato a una onlus». Rifiutandosi di chiedere scusa, prosegue l'inflessibile imam, «è stato Sallusti a condannare a 14 mesi di carcere Sallusti». Che sarebbe come dire che tutti gli imputati che non si dichiarano colpevoli meritano di essere condannati al massimo della pena. Nell'universo carcerario di Travaglio gli innocenti non esistono.

Ammettiamo però che Sallusti sia colpevole, che cioè abbia colpevolmente omesso di controllare un articolo non suo palesemente diffamatorio. Se è colpevole, va condannato: non c'è dibattito. E infatti il dibattito - o, per meglio dire, lo scandalo - non sta nel giudizio di colpevolezza, ma nella pena inflitta: che non ha precedenti nella storia recente né paragoni nel mondo occidentale. Di questo Travaglio non si preoccupa, e anzi contesta al Quirinale il diritto di «acquisire tutti gli elementi di valutazione» sul caso e irride «i Sallusti e i Farina che augurano la pena di morte agli altri e poi piagnucolano per qualche mese di carcere».
Non so se il nostro direttore abbia pianto (non credo), ma avrebbe avuto tutto il diritto di farlo, e ironizzare sulla galera degli altri dimostra la sensibilità di un carciofo. Pazienza.

Il fatto è che Sallusti è stato condannato a quattordici mesi di carcere non perché l'ormai famoso articolo di Dreyfus-Farina apparso su Libero fosse diffamatorio, ma proprio perché è Sallusti, cioè il direttore del Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi, il giornalista militante che non nasconde mai le proprie opinioni (anzi), che in televisione disturba i salotti politicamente corretti (con qualche successo, visto che è spesso invitato), che in prima pagina scrive con nome e cognome, e qualche volta con linguaggio colorito, le cose che pensa, per esempio, sulla giustizia italiana.

E qui veniamo al punto: Travaglio non perdona a Sallusti di aver «colto l'ennesima occasione per sparare sui “giudici politicizzati” e sulla “sentenza politica”». La sua colpa, insomma, è quella di aver sostenuto una tesi sgradita, oltreché al condirettore del Fatto, anche ad un certo numero di politici e, naturalmente, di giudici. Qui il reato per cui il direttore del Giornale è stato condannato non c'entra più nulla. È sparito, si è dissolto. Il reato è diventato il reo: la colpa di Sallusti è essere Sallusti.

Anche Massimo Gramellini, sulla prima pagina della Stampa, nel prendersela con Dreyfus-Farina non perde l'occasione di prendere in giro il condannato: «Non avevamo ancora finito di ripiegare i fazzoletti per la condanna ingiusta di Sallusti...». E sui social network la campagna di solidarietà, che pure è stata ed è massiccia, si è subito scontrata con una contro-campagna il cui succo si può riassumere così: i princìpi sono una cosa, il direttore del Giornale un'altra.

Abbiamo tutti perso un'occasione. Si può essere militanti duri e puri e ciò nondimeno, come insegnava Voltaire, battersi spassionatamente perché all'avversario sia concessa la nostra stessa libertà di espressione, perché una legge ingiusta sia abrogata, perché una sentenza arbitraria sia cancellata. Oppure si può dividere il mondo in due metà, quella dei buoni e quella dei cattivi, e applicare di conseguenza due pesi e due misure.

Ma il mondo gira in fretta, e c'è il rischio di ritrovarsi, senza neanche accorgersene, nella metà sbagliata.

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