La regia degli Usa dietro Mani pulite. O meglio, un legame troppo stretto fra Washington e il Pool di Antonio Di Pietro. Una liason che passava attraverso il consolato di Milano. È una voce autorevole, anzi autorevolissima, quella che a tanti anni di distanza dà corpo a una delle leggende che accompagnarono la Rivoluzione italiana: quella che sosteneva la vicinanza fra l'establishment statunitense e i pm della Procura di Milano. A confermare quella lettura inquietante di uno dei periodi più controversi e drammatici della storia italiana è, nientemeno, l'ex ambasciatore in Italia Reginald Bartholomew. Le sue parole sono state raccolte circa un mese fa da Maurizio Molinari della Stampa e il colloquio è stata pubblicato ieri dal quotidiano torinese, tre giorni dopo la morte del diplomatico, avvenuta domenica a 76 anni in un ospedale di New York.
Bartholomew, ricorda Molinari, fu catapultato a Roma in piena tempesta. Mani pulite era scoppiata il 17 febbraio dell'anno precedente, il 1992, con l'arresto di Mario Chiesa e il Pool macinava arresti su arresti. L'Italia era di fatto nelle mani di un gruppetto di magistrati, osannato dall'opinione pubblica: Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Gerardo D'Ambrosio, il coordinatore, il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli. Clinton, preoccupatissimo per la piega che aveva preso il nostro Paese, di fatto in decomposizione, decise di puntare su un ambasciatore non politico.
Finalmente nel '93 ecco il veterano del Foreign Service in Via Veneto. «Qualcosa non quadrava - è il suo racconto - nel rapporto fra il consolato Usa di Milano e il pool Mani pulite», un gruppo di magistrati «che nell'intento di combattere la corruzione dilagante era andato ben oltre violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l'Italia, a cui ogni americano si sente legato».
Dunque, come si può capire, la realtà era molto complessa. Ma la sostanza era che l'allora console generale a Milano Peter Semler aveva dato disco verde a Borrelli e ai suoi pm. E questo per Bartholomew era inaccettabile. Se il suo predecessore a Villa Taverna aveva lasciato fare, lui decise che così non si poteva andare avanti. Bartholomew, su cui Clinton aveva scommesso, era convinto che la nuova Italia, uscita dalle macerie della prima repubblica, dovesse essere disegnata da una nuova classe politica e non da un manipolo di toghe. «D'ora in avanti - svela il diplomatico, riferendosi a quel rapporto speciale fra il consolato e il palazzo di giustizia - tutto ciò con me cessò».
Anzi, Bartholomew prese alcune iniziative per sensibilizzare l'establishment americano su quel che stava avvenendo nelle aule di giustizia italiane. Qualcosa che andava ben oltre i confini dello stato di diritto. Così l'ambasciatore fece venire a Villa Taverna «il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani pulite».
Infine Bartholomew parla di quel che accadde nel'94 con l'avviso di garanzia a Berlusconi e in realtà sembra pasticciare con le date mescolando l'arrivo in Italia per il G7 di Clinton, nell'estate, e l'emissione del provvedimento giudiziario che colpì il premier, recapitato direttamente in edicola dal Corriere della Sera in autunno, nel corso di una conferenza internazionale contro al criminalità. «Si trattò - spiega lui - di un'offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l'impatto della sua iniziativa contro Berlusconi». «Gliela feci pagare - è la secca conclusione - a Mani pulite».
Come? Forse altre rivelazioni arriveranno con una seconda probabile puntata, ma certo Barholomew racconta di aver tessuto freneticamente la tela dei rapporti con i politici emergenti: D'Alema, Berlusconi, Fini. Ignorò invece completamente Di Pietro e soci. «Queste cose dette da una persona che oggi non c'è più - ribatte ai microfoni di Radio24 Antonio Di Pietro - mi spingono a dire pace all'anima sua. Altrimenti l'avremmo chiamato immediatamente a rispondere delle sue affermazioni per dirci chi, come, dove e quando. Io - aggiunge l'ex pm - non ho mai incontrato questo Bartholomew, invece so che gli Usa all'epoca furono molto collaborativi per quanto riguarda le rogatorie». Ancora più duro Francesco Saverio Borrelli: «Mi stupiscono queste dichiarazioni perché provengono da un americano e se ci sono prassi poliziesche o carcerarie contrarie ai diritti dell'uomo sono proprio certe prassi seguite negli Usa. Non voglio polemizzare con un defunto, ma respingo quelle dichiarazioni e valutazioni radicalmente, perché non c'è nulla di fondato».
Per Bobo Craxi, figlio di Bettino, Bartholomew narra invece quel che si è sempre sospettato: «La mano straniera che ha orientato il golpe non è un'invenzione e esprimere stupore e sorpresa per l'intervista sarebbe persino riduttivo». E il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto si sofferma sui «singolari rapporti fra il consolato di Milano e Di Pietro», riproponendo una domanda antica: «Ma chi era Di Pietro?».
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