S arebbe drammatico e da irresponsabili innescare dentro la legge di Stabilità una resa dei conti tutta ideologica tra le forze che compongono l'attuale grande coalizione che sostiene il governo Letta-Alfano. Non lo capirebbe l'Europa, non lo capirebbero i mercati, non lo capirebbero soprattutto gli italiani.
I dati della crisi italiana sono ben noti per richiamarli ancora. Siamo di fronte alla più grave caduta del reddito dal dopoguerra a oggi. Consumi delle famiglie che sono crollati. Disoccupazione complessiva (disoccupati ufficiali + cassa integrazione) pari, se non superiore, a quella del 1929. Una condizione sociale disperata per la parte più debole del nostro paese. Un tasso di risparmio che si riduce, per far fronte alle necessità di mantenere, per quanto possibile, un tenore di vita decoroso.
Siamo rapidamente passati da uno choc «esogeno» (per riprendere la bella analisi di Salvatore Rossi nel confronto con gli anni '92-93) a una nuova patologia «endogena». Come è dimostrato dal fatto che il tasso di crescita italiano è ormai disallineato rispetto ai partner europei. Loro crescono, seppure non come vorrebbero. Noi continuiamo a precipitare.
In tanto sconforto, un dato è stato trascurato. Dalla nascita dell'euro, per la prima volta, il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è in pareggio. Come ha scritto recentemente il Centro studi di Confindustria: non viviamo più al di sopra delle nostre possibilità. Giusta osservazione, da declinare tuttavia cogliendo le luci e le ombre che accompagnano questo giudizio. Il segnale positivo è la rottura di un rapporto di dipendenza dall'estero: non dipendiamo più dalle grandi istituzioni finanziarie per l'ulteriore collocamento del nostro debito pubblico. Se, come prevede il Fondo monetario internazionale, manterremo questo risultato fino al 2018, avremo congelato l'apporto necessitato di fondi esteri, vale a dire una percentuale pari a circa il 25%. Come nel caso del Giappone, potremo sperare in una maggiore stabilità finanziaria, nonostante l'alto debito accumulato.
Ma gli aspetti negativi sono, indubbiamente, sovrastanti. È sempre il Fondo monetario internazionale a dirci che per quella data (il 2018) il tasso di disoccupazione sarà pari al 9,8%. Una situazione insostenibile, che richiede una qualche spiegazione. L'equilibrio realizzato è di sottoccupazione. Di progressiva riduzione del potenziale produttivo. Ora: da che mondo è mondo, quando si verifica una situazione simile, sono le forze del mercato che mettono in moto un processo di riconversione produttiva in grado di alimentare un nuovo ciclo di sviluppo. Questo in Italia non è avvenuto. Non è avvenuto perché un neo statalismo di ritorno ne ha ritardato l'avvio, operando come freno in una pura azione di contrasto.
Se analizziamo i lunghi anni che ci separano dalla nascita dell'euro, i dati lo confermano. Rispetto al 2001, il deficit di bilancio italiano è rimasto inchiodato, pur con qualche piccola variazione, sulla soglia del 3%.
Conseguenza dei paradigmi tipici di un'economia sociale di mercato? L'esperienza europea smentisce una tesi, che è solo consolatoria. Nel 2002 Gerhard Schröder, alla testa di una coalizione rosso-verde, iniziò una dura azione per razionalizzare il welfare tedesco, in nome della «terza via». Non ebbe timore a rompere con la sinistra massimalista dell'Spd, guidata da Oskar Lafontaine e varare la cosiddetta Agenda 2010, che prese forma nelle 4 riforme cosiddette Hartz, dal nome dell'allora direttore risorse umane di Wolkswagen, che le ideò.
In Italia, purtroppo, quel coraggio finora è mancato. Eppure i suggerimenti, autorevolissimi, nel tempo non sono mancati. Valga per tutti, l'elenco di raccomandazioni che la Commissione europea ha fatto pervenire al nostro governo lo scorso giugno, nel chiudere la procedura per deficit eccessivo. Si tratta di sei punti che partono dal rispetto dei parametri finanziari (deficit e debito), ma che investono i gangli vitali di un'economia che si è ormai seduta: efficienza e qualità della pubblica amministrazione; riordino del sistema del credito; rigidità del mercato del lavoro; riduzione della pressione fiscale; libera concorrenza.
Nell'immediato ci aspettiamo, pertanto, che la Legge di stabilità 2014-2016 inizi con l'affrontare una serie di temi centrali per l'economia italiana per presentarsi forte al semestre di presidenza di turno dell'Unione europea, dal 1° luglio 2014.
Il rigore dei conti pubblici va preservato. E in particolare, della regola cosiddetta «della spesa», prevista dall'articolo 81 della Costituzione, come modificato lo scorso anno, con il voto unanime di tutta la maggioranza, e della regola cosiddetta «del debito», introdotta dal fiscal compact.
Ne derivano due domande, dalle risposte alle quali occorre partire per definire la strategia di politica economica del governo dal 2014 in poi, secondo gli impegni già presi dal presidente del Consiglio. Anno che presenta una «coda» ideologicamente avvelenata nel dibattito tra centrosinistra e centrodestra, ma di facile soluzione dal punto di vista finanziario (l'entità degli interventi richiesti si attesta tra 4 e 5 miliardi), se si considerano importi una tantum derivanti da operazioni virtuosi quali, come vedremo, la rivalutazione delle quote di partecipazione del capitale della Banca d'Italia e la piena implementazione della strategia dei pagamenti dei debiti delle Pa, fino ad arrivare a 90-100 miliardi entro il 2015.
Prima domanda: se si ipotizza di contenere la spesa pubblica italiana, secondo la regola costituzionale citata, e di riportare la pressione fiscale a livello medio europeo, di quanto deve essere lo sforzo fiscale necessario e con quale ritmo? Seconda domanda: essendo usciti dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo, la regola «del debito» scatterà nel 2016 (mentre per Francia e Spagna scatterà nel 2018). Nel 2013, il rapporto debito/Pil sfiorerà, stando ai dati della Nota di aggiornamento al Def, il 130%. Se si considera che, secondo le previsioni del Mef, lo sforzo fiscale maggiore si concentrerà nei primi 5 anni, a quanto dovrà ammontare in termini di Pil lo sforzo richiesto all'Italia? E come si concilierà con la regola della spesa e con la proposta di una progressiva riduzione del carico fiscale?
Spending review. Obiettivo: taglio della spesa corrente per 16 miliardi di euro (un punto di Pil) all'anno. Nell'ambito della riduzione della spesa pubblica, un ruolo centrale dovrà giocare la riduzione della spesa per interessi. Un piano credibile di «attacco al debito» è quello che ci vuole, valorizzando la proposta presentata nell'agosto del 2012 dal Pdl all'allora presidente del Consiglio Mario Monti sul cui tracciato si è inserito il cosiddetto «piano Grilli» di abbattimento del debito pubblico, attraverso la dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato, per un punto di Pil, vale a dire 16 miliardi all'anno.
Service Tax: da articolare in modo tale da ottenere un gettito complessivo di 44 miliardi, pur escludendo la prima casa. Sul lato della riduzione della pressione fiscale, finanziata dal taglio della spesa pubblica nei modi che abbiamo visto, con la legge di Stabilità dovrà essere definito l'impianto della Service Tax, partendo dall'Imu «federalista».
Delega fiscale: l'occasione per ridurre la pressione fiscale passando dalla tassazione sulle persone alla tassazione sulle cose. Al fine di accelerare l'iter di revisione del sistema fiscale italiano, con l'obiettivo di ridurre la pressione tributaria sui contribuenti, nel rispetto degli obiettivi di finanza definiti dal Six Pack e dal fiscal compact, occorre preparare fin da subito i decreti legislativi relativi alla delega fiscale, contestualmente all'approvazione di quest'ultima in Parlamento.
Revisione della struttura delle aliquote Iva. Il gettito annuo dell'Iva in Italia ammonta a 115 miliardi di euro. Tuttavia, l'attuale sistema prevede 3 aliquote (4%; 10% e 22%), stabilite in base a panieri di beni non aggiornati, e una serie di esenzioni e agevolazioni anch'esse da rivedere, tenendo conto dell'evoluzione dei prodotti presenti sul mercato nazionale e dei consumi delle famiglie, e convergendo verso la prassi europea. Così facendo, il gettito complessivo dell'Iva viene «qualificato». E aumenta, grazie alla lotta all'evasione, che per il 40% avviene proprio attraverso il non versamento dell'Iva.
Rivalutazione delle quote di partecipazione al capitale della Banca d'Italia. Quella di rivalutare le quote di partecipazione al capitale della Banca d'Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici è una proposta «win-win-win». Da questa operazione, infatti, derivano benefici per tutti: per le banche, che si ricapitalizzano e affrontano con meno pathos i parametri di Basilea III; per le imprese e le famiglie, che vedono riaprire nei loro confronti i rubinetti del credito; per lo Stato, che trae vantaggio in termini di gettito.
Riduzione del cuneo fiscale per un punto di PIL (16 miliardi) all'anno. Più flessibilità e aumento dell'orario di lavoro, in chiave europea. La riduzione del cuneo fiscale, come richiesta da tutte le formazioni politiche e dalle parti sociali, richiede l'investimento, da parte dello Stato, di ingenti risorse. Nel 2005 ci provò il governo Prodi con 5 miliardi di euro. Per vedere qualche risultato di miliardi ne servono almeno 16. E occorre intervenire anche sull'Irap. Il tutto all'interno di una grande riforma degli ammortizzatori sociali, sul modello tedesco. Nonché nell'ambito di una vera riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, in chiave europea.
Piena implementazione della Legge di stabilità 2013-2015. Ai fini della riduzione del cuneo fiscale in particolare e della pressione fiscale in generale, molti strumenti esistono già, in quanto previsti dalla Legge di Stabilità 2013-2015, approvata lo scorso anno. Si tratta del Fondo «Giavazzi-Squinzi-Brunetta», che riconosce un credito d'imposta alle imprese che investono in ricerca e sviluppo, ma è anche finalizzato alla riduzione del cuneo fiscale, finanziato dalla riduzione dei «cattivi» trasferimenti alle imprese; del Fondo per i «Salari di produttività»; del Fondo per la riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese, finanziato dai proventi derivanti dalla lotta all'evasione (per gli importi non già inclusi nei tendenziali di finanza pubblica); e del Fondo per l'esenzione dei lavoratori autonomi senza struttura dall'Irap. Basta implementarli.
Per ottenere, con le proposte qui presentate, cui possono senz'altro aggiungersene tante altre, un risultato duraturo, occorre un confronto sereno sulle possibili opzioni da inserire nella Legge di Stabilità. Un coinvolgimento delle forze sociali in un «Patto per lo sviluppo», che sappia mobilitare le migliori energie del Paese. Per quanto ci riguarda, siamo pronti. Insieme a «Fare futuro» e a «Italia Futura» consegneremo oggi al presidente del Consiglio il risultato di alcune riflessioni, sfociate in proposte chiare e definite. Abbiamo costituito, pertanto, un think tank, aperto a tutte le forze di buona volontà, che si propone un monitoraggio continuo dell'evoluzione economica e sociale del Paese, rispetto alla quale avanzare proposte e suggerimenti. Se poi questo processo fosse arricchito da riunioni periodiche della «cabina di regia», si avrebbero delle sinergie straordinarie.
Non si tratta di confondere piani diversi di responsabilità politica, bensì di capire che è la complessità della crisi che richiede un'architettura più complessa. Altrimenti il decennio trascorso dalla nascita dell'euro non avrebbe portato ai deludenti risultati, che sono sotto gli occhi di tutti.
Del resto vi sono terreni (come quello degli eccessi di spesa locale, del riordino del sistema delle autonomie, dei necessari controlli e via dicendo) che in tutti questi anni non sono stati esplorati. E quando si è cercato di intervenire, essi hanno dato luogo a logiche incrementali, sommando l'antico centralismo con un federalismo senza responsabilizzazione.
Mettere ordine, in questi grandi comparti, non sarà facile. Le resistenze sono forti e paralizzanti. Occorre pertanto che la politica abbia il coraggio del «fare». Essa ha imposto agli italiani, specie negli ultimi anni, un sacrificio complessivo che è pari a 5 punti di Pil, con risultati, però, quasi inesistenti. Visto il perdurare della crisi. Basterebbe questa semplice annotazione per dimostrare la necessità di un cambiamento radicale nell'approccio sui singoli problemi.
Tutto questo significa un serio «Patto per lo sviluppo», come rafforzamento
dell'azione del governo Letta-Alfano e come programma di medio periodo della grande coalizione. Se davvero la vogliamo. Le stagioni politiche le cambiano gli elettori, e non nuovi (e molto provvisori) equilibri di palazzo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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