RomaCom'è difficile fare le riforme in Italia. Ma anche prendere decisioni che cambiano appena qualche dettaglio non è un gioco da ragazzi. Ha poco da scherzare il premier Mario Monti. Ieri ha detto che «in passato molti hanno promesso senza mantenere», ma in una sola settimana il suo governo si è trovato ad affrontare un'offensiva parlamentare e giudiziaria che ha smontato, o si appresta a sgonfiare, molte decisioni del governo tecnico.
Un fuoco di fila parlamentare che, anche se il governo non lo ammetterà mai, rischia depotenziare il decreto sui costi della politica. Quello approvato all'indomani dei casi Fiorito, Mariuccio e similari. Poi una strategia di logoramento sulle pensioni per introdurre deroghe alla riforma, pagate con nuove tasse, e, più in generale, un sistematico bombardamento sulla legge di stabilità.
Dove hanno fallito le pressioni della politica, è arriva la giustizia. Sempre nelle ultime due settimane, a stretto giro di posta, una sentenza ha di fatto smontato la riforma dell'articolo 18 e una decisione della Corte Costituzionale ha annullato il contributo di solidarietà sugli stipendi più alti della pubblica amministrazione.
Questo, in realtà, era un provvedimento del governo Berlusconi, ma il conto lo pagherà Monti. Mille euro in più ai super dirigenti della pubblica amministrazione che negli ultimi due anni avevano pagato un contributo di solidarietà del 5% tra quando avevano un reddito tra i 90 e i 150mila euro e del 10% oltre. Il governo, subito dopo la decisione della Consulta, ha cancellato il contributo con un decreto. A giorni ne arriverà un altro per riconoscere ai super stipendiati di Stato anche gli arretrati.
La notizia della bastonata giudiziaria alla riforma dell'articolo 18 l'ha data giorni fa un quotidiano: una sentenza ha reintegrato un lavoratore e lo ha fatto, secondo gli esperti, seguendo i principi del vecchio articolo 18. Il ministro Elsa Fornero pensava di averlo modificato, limitando la riassunzione in azienda a pochi specifici casi, ma a quanto pare non è così. La sentenza che farà giurisprudenza e toglierà potere a una riforma che, per la verità, era già annacquata e di compromesso.
È ormai esplicito il tiro alla fune sulle pensioni. A depotenziare la riforma, con la solita formula della gradualità, sono emendamenti e proposte di legge votate, all'unanimità, dalla commissione Lavoro. L'ultima versione è quella nota che salva tutti gli esodati (cioè chi si è ritrovato senza pensione e senza stipendio a causa della stretta sui requisiti) nel prossimo biennio. Il tutto a spese dei redditi sopra i 150mila euro, che dovranno pagare un contributo del 3%. Anche se non passerà in questa forma, la stretta previdenziale del governo, che è in vigore, uscirà comunque un po' allentata.
Se lo sguardo si sposta poi ai provvedimenti ancora all'esame del Parlamento, lo spettacolo è quello di un campo di battaglia. Sui costi alla politica la commissione Affari regionali ha semplicemente bocciato il taglio alle indennità e al numero dei consiglieri delle assemblee locali deciso per decreto dal governo. I relatori sono corsi ai ripari (comunque si tratta dell'esame di commissione di merito, le decisioni non sono vincolanti), ma hanno subito cercato un compromesso. Nel caso specifico consiste nel mantenere fermi i tagli, cancellando il controllo preventivo della Corte dei conti sulle leggi di spesa delle regioni. Rimarrà un controllo ex post. E, come insegna l'esperienza, mille modi per farla franca. D'altro canto è stato il segretario Pd Pier Luigi Bersani a farsi carico delle istanze delle regioni. Così come di quelle degli insegnanti che si oppongono all'aumento delle ore di lavoro, senza un aumento di stipendio.
Sulla legge di stabilità il governo rischia di dovere issare la bandiera bianca.
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