Pensionato e spedito ai giardinetti con la qualifica a vita di «presidente federale», carica che fino all’altro giorno, e per sette anni prima di lui, ha ricoperto l’onorevole Angelo Alessandri, tanto per capire la fondamentale importanza di quella poltrona. Quella di via Bellerio sembra una resa incondizionata per Umberto Bossi. Ma forse non lo è, tant’è vero che Maroni non esce da lì trionfante, anche se ha ottenuto il sigillo che voleva: la firma del Senatùr sul trattato di via Bellerio. Il problema che resta, e che Maroni ha ben presente, è che Bossi è Bossi, e rimarrebbe Bossi anche se gli fosse data la carica di usciere della sede leghista e anche se finisse indagato, com’è probabile, nella vicenda Tanzania.
Malgrado tutto, Bossi non è soltanto il fondatore del Carroccio, è l’uomo che ha saputo tenere insieme (con sempre più difficoltà, è chiaro) le diverse anime, anche territoriali, della Lega Nord, e che l’ha trasformata da movimentino folkloristico brianzolo a terzo partito nazionale, con due presidenti di regione e centinaia di sindaci. Questo è il patrimonio che Bossi lascia a Maroni, che come segretario federale della Lega deve ancora dimostrare tutto. C’è poi un secondo aspetto del «problema Bossi» che aspetta al varco l’apprendista capo Maroni. E cioè: il giudizio di Bossi, per quanto relegato allo status di presidente-nonno, avrà sempre un peso enorme dentro la Lega, anche se «il Bobo» avrà una carica formalmente più importante della sua. Che succederà, mettiamo il caso, se il segretario Maroni dirà no alle alleanze col Pdl e il giorno dopo Bossi sussurrerà ai cronisti un «vediamo, il Pdl ha sempre mantenuto gli impegni con noi»?
Il caos, le rotture, le divisioni tra pro-Maroni e pro-Bossi. È una situazione che nessun altro ha mai dovuto affrontare, perché non è stato mai nemmeno immaginabile un capo «sopra» Bossi. E farlo sarà dura per Maroni, che si ritroverà coi ruoli invertiti: da ribelle tenuto a bada dal capo Bossi, a nuovo capo col problema di tenere a bada Bossi. Forse è per questo che ieri Bossi, nel giorno della resa, è apparso sereno agli altri «federati» del consiglio. Gli ultimi bossiani lo hanno convinto a fare così, e la soluzione ratificata in un documento di due pagine e mezzo (con la clausola di garanzia per se stesso e la famiglia, un fondo spese riservato ai Bossi...) gli è parsa pacificatoria, anche perché sa che la sua parola conterà ancora, al di là delle cariche formali. Non che la decisione sia stata facile.
L’umore di Umberto Bossi, riferiscono i suoi contatti più stretti, da quando è esploso lo scandalo Belsito oscilla tra la depressione e l’arrabbiatura. Depressione (con frequenti pianti al telefono) per l’impotenza e per le batoste pubbliche ricevute da suo figlio Renzo e in generale dalla sua famiglia.
Incazzatura per il raid con cui Maroni ha fatto piazza pulita di tutto pappandosi il partito in un boccone. Da reprobo (il diktat di gennaio) a quasi monarca (col congresso di fine giugno): un blitz da manuale di strategia militare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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