Roma - Una notte lunghissima, a letto poco prima dell’alba dopo estenuanti discussioni domestiche, con Bossi che chiede spiegazioni anche a sua moglie Manuela, e alla fine decide la mossa successiva alle sue dimissioni: quelle di Renzo. Col figlio ci parla poche ore dopo, e stavolta non trova le resistenze che aveva trovato solo qualche mese fa. Sì, era già successo che Bossi chiedesse al figlio un passo indietro. Fu quando scoppiò il caso Rizzi, la notizia cioè del presunto dossieraggio messo in piedi dall’assessora leghista lombarda Monica Rizzi (indagata) per favorire la campagna elettorale del Trota (con brutte storie di maghe e festini annessi). «O fai dimettere lei o te ne vai tu» aveva detto il padre al figlio, che però non si fece convincere e restò dov’era. Adesso invece Renzo è costretto a lasciare da suo padre (convinta anche la moglie, inizialmente scettica), che in questo 8 settembre leghista ha come arma di difesa solo le dimissioni famigliari (dopo le sue disse ai microfoni di Radio Padania «ora sono più forte»).
«Ha fatto bene a dimettersi. Erano due mesi che mi diceva che era stufo di stare in Regione» spiega Umberto Bossi. In effetti si dice da qualche tempo che Renzo si sentisse isolato, tra i leghisti guidati dal capogruppo Stefano Galli, poco accomodante con quel cerchio di famiglia che voleva lanciare il Trota (e gira via sms tra i maroniani un passaggio del libro del nemico Reguzzoni sulla Lega: «Ed è per questo che i nostri militanti veri, fuori da logiche di potere e di palazzo, vedono in Renzo una speranza per il futuro. Uno così non può tradire, non può vendersi, pensano a ragione»). Stavolta le sponde del Trota sono franate, e deve mollare la (bella) vita da consigliere.
Nell’intervista a TgCom24 dove Bossi jr annuncia le sue dimissioni (subentrerà il primo dei non eletti a Brescia) il secondogenito di casa Bossi tira implicitamente anche una stoccata al leghista Davide Boni, maroniano, presidente del Consiglio regionale, indagato in un’altra inchiesta e non dimissionario: «In Consiglio regionale negli ultimi mesi ci sono stati molti indagati, io non lo sono ma credo sia giusto per la Lega fare un passo indietro». Questo è il clima che porterà al congresso federale, cioè la lotta tra quel che resta del cerchio magico e i barbari sognanti, che stasera a Bergamo chiederanno espulsioni e dimissioni, in un bis del «Maroni Day» che sarà, dice uno di loro, «un congresso federale di popolo che eleggerà Bobo nuovo segretario federale» (lo statuto dice massimo trenta giorni per nominarne uno nuovo). A ore (si dice per oggi, dopo summit dei capi leghisti), verranno chieste le dimissioni di Rosi Mauro. Altrimenti i senatori della Lega sono pronti ad uscire dall’aula quando dovesse presiedere i lavori. Sempre che non si sia già dimessa, come le chiedono molti della Lega, a partire da Calderoli. Già, Calderoli, uno dei triumviri e uno di quelli nel mirino dei maroniani. Non solo perché è tirato in ballo dalle telefonate, per i milioni investiti in Tanzania e altri passaggi di soldi. Ma anche perché ci si ricorda («e noi non dimentichiamo») il suo immobilismo durante la fatwa su Maroni, cioè il divieto di comizi per l’ex ministro. Stesso problema per Roberto Cota, di cui i maroniani si sono segnati sul taccuino nero una frase durante il federale delle dimissioni del capo: «Facciamo reggente Calderoli invece di un triumvirato».
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