diAltro che certezza del diritto. La tragedia di Ustica è ormai diventata, da un tribunale all'altro, un'interminabile soap il cui copione è sfuggito di mano a tutti. E così, in un inestricabile groviglio di procedimenti penali e civili, le sentenze si susseguono e si accatastano l'una sull'altra, sposando di volta in volta tutte le tesi possibili e immaginabili. Surreale. A trentatré anni dal disastro si è capito poco o nulla: non fu un cedimento strutturale a far precipitare il Dc9 dell'Itavia, ma anche il partito del missile si è dovuto arrendere davanti al relitto ripescato, con un'operazione costosissima, in fondo al mare: sulla carcassa del velivolo non è stata trovata nemmeno una scheggia nemica. Non importa. Ora, dall'ennesimo rimpallo arriva il verdetto della Cassazione civile che dà per buoni due punti che invece chiari non sono per nulla. Si sostiene che la tesi del missile «è stata consacrata» e, dettaglio ancora più stupefacente, si parla della «significativa opera di depistaggio» compiuta dai vertici dell'Aeronautica militare. Modesto dettaglio: i generali dopo un estenuante e a tratti imbarazzante processo nel processo sono stati assolti dall'incredibile accusa di aver nascosto la verità - quale?, nessuno lo sa, pazienza - alle autorità. Bene, quell'assoluzione scorre come acqua fresca. E dunque la Suprema corte, attaccandosi ad uno dei tanti verdetti di questa saga, dà ragione agli eredi del defunto patron dell'Itavia Aldo Davanzali e dispone un nuovo dibattimento per dare loro adeguato risarcimento. Ora, è vero che l'Itavia fu ingiustamente portata sul banco degli accusati e per lungo tempo fu accreditata la tesi, inverosimile, del cedimento strutturale del presunto aereo carretta.
Ma sostenere, su questa base, che il fallimento della compagnia sia da addebitare ai generali è passaggio di sesto grado superiore.
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