Sarebbe stato più semplice dire: «Ho sbagliato». «Abbiamo sbagliato tutti». In fondo un abbaglio può prenderlo perfino un superdetective del giornalismo come lui, abituato a scandagliare nella penombra dei cassetti. E pure dietro, perché non si sa mai.
E invece no: ieri Marco Travaglio ha indossato la corazza dell'ipocrisia e sul Fatto quotidiano si è esercitato in un editoriale che era tutto un minimizzare, un cavillare, un distinguere, uno spaccare il capello non in 4, perché sarebbe troppo semplice, ma in 8 o in 10. Il Csm ha deciso di aprire una pratica per trasferire il procuratore di Palermo Francesco Messineo, travolto dal caso Ingroia e dalla propria debolezza, e lui ha rigirato la frittata contro il Consiglio superiore.
Travaglio scappa letteralmente dalla recente cronaca e per non tradire la propria linea superpalermitana difende tutto e tutti: Ingroia che si porta dietro a sua volta Messineo e poi la procura di Palermo e il processo Stato-mafia. Tutti sulle sue spalle.
Incredibile: perfino il Csm non ne può più delle scorribande di Ingroia che ad Aosta si è fatto vedere giusto per ritirare il Tapiro d'oro, ma lui, imperterrito, tira dritto per la sua strada: la procura, come hanno raccontato autorevoli magistrati, sprofondava nella guerra fra opposte fazioni, antipatie e rivalità personali, e Messineo, debole, troppo debole per guidare una polveriera del genere, si lasciava governare da Ingroia.
Ce n'è, ce ne dovrebbe essere a sufficienza per gettare la spugna, ma Travaglio corre in soccorso dei pm con la sua prosa fotoshoppata: ci spiega in sostanza che era un bene che Messineo si appoggiasse a Ingroia come a una stampella, perché il procuratore aggiunto aveva un'esperienza formidabile alle spalle.
Nemmeno una parola sull'interminabile gimkana di Ingroia fra procura, Guatemala, politica e fra i processi, i libri, i convegni in favore di telecamera e le televisioni tout court. C'era un Ingroia pm, un Ingroia saggista e polemista, un altro ancora sulla rampa di lancio della politica e un ultimo che faceva le funzioni del suo capo, ma tutti e quattro i personaggi erano nella norma, quella così elastica e liberal di Travaglio.
I veleni di Palermo, va da sé, sarebbero poi solo un retaggio della precedente gestione, quella di Pietro Grasso. Così per guidare fuori dalla palude la coppia Ingroia-Messineo, Travaglio guarda nello specchietto retrovisore e scarica le responsabilità sul solito Grasso che, guarda la combinazione luciferina, è stato pure promosso alla Procura nazionale.
È il solito giochetto: una buona dose di scaricabarile, un bel maquillage per nascondere le pagine nere, come la mancata cattura di tale Matteo Messina Denaro, peraltro considerato il capo di Cosa nostra, e poi la controffensiva per colpire gli altri. Siano essi Grasso o il Csm, definito una congrega di sepolcri imbiancati.
Eh no, i sepolcri imbiancati sono quelli che si sono ostinati e si ostinano perfino ora a disegnare il grande complotto dei poteri forti, fortissimi come il Quirinale e Giorgio Napolitano, e a raccontare una procura di Palermo che non c'è, a divulgare foto formato cartolina quando la realtà è più avvilente, a nascondere sotto la sabbia di articoli e trasmissioni tv la verità spesso più mortificante, a diffondere nel Paese una colonna sonora celestiale che copre le lotte, le meschinità, gli errori.
Mancano solo gli angioletti e le melodie dell'arpa. È triste continuare con l'iconografia degli eroi, quando da tempo si è capito che gli eroi erano solo quelli raffigurati nei poster e nelle foto ormai ingiallite.
E lo zucchero a velo della
retorica serve solo per tappare i buchi del carrierismo, dell'ambizione alla luce dei riflettori, della mediocrità.E per calpestare gli altri pm, quelli sprovvisti di claque e red carpet, che fanno il loro dovere senza fanfare.
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