«Interveniamo, ma senza colpi d’ascia»

Età pensionabile: cambiare ora o aspettare? Abbiamo posto la domanda a Fabio Pammolli, direttore del centro di ricerca Cerm.
«Distinguiamo: i tempi di risposta alla sentenza Ue, che è specifica in quanto riguarda le donne nel regime Inpdap, sono istituzionali ed è competenza del governo rispondere, in occasione del decreto anticrisi o in altra sede. Mi sembra più interessante andare al di là, e capire i segnali che arrivano sulla differenza tra noi e il resto d’Europa in tema pensioni».
Quali sono?
«Bisogna partire da due fattori chiave: la longevità degli italiani, mediamente di 2 anni in più rispetto ad altri Paesi Ue, e la permanenza al lavoro, mediamente di 1,4 anni in meno. Risultato: una differenza media di 3,4 anni, ma rispetto ad alcuni Paesi anche di 5».
E questo che cosa comporta?
«Il sistema attuale, finanziato a ripartizione, in cui chi è attivo paga per chi va in pensione, frena gli incentivi al mercato del lavoro e deprime la produttività, perché ha come conseguenza un elevato livello del cuneo contributivo».
Come è possibile intervenire?
«Occorre da un lato costruire un secondo pilastro di previdenza complementare a capitalizzazione, in cui ognuno finanzia in pratica la propria pensione, con investimenti di lungo periodo che, storicamente, hanno avuto un rendimento più elevato della crescita media del Pil. Indipendentemente dalla sentenza di Bruxelles, è attraverso lo sviluppo di un sistema complementare a capitalizzazione che si può intervenire per alleggerire l’incidenza del cuneo. Senza contare l’impatto psicologico: ogni lavoratore investirebbe sul proprio futuro e sarebbe incentivato alla produttività. Ma torniamo alle pensioni pubbliche. In questo caso, è importante accelerare il passaggio dal sistema di calcolo retributivo al sistema contributivo, attuando pienamente la cosiddetta riforma Dini, che altrimenti passerebbe a regime fra il 2030 e il 2035, proprio in corrispondenza del picco di spesa pensionistica rispetto al Pil».
In che modo?
«Va ripristinato un rapporto fra periodo di lavoro e di quiescenza che tenga conto delle aspettative di vita, armonizzando le età fra uomini e donne, prevedendo margini di flessibilità circoscritti per il pensionamento e pensioni proporzionate all'aspettativa di vita».
In che tempi è possibile realizzare tutto questo?
«Oggi, proprio perché la transizione non si è compiuta, le pensioni erogate restano molto generose e incorporano, impropriamente, flussi di redistribuzione. Quindi una riforma "a colpi d’ascia", a impatto immediato, avrebbe effetti difficilmente valutabili. La transizione va annunciata e realizzata in un tempo congruo, e non solo per rispondere alle richieste Ue. Il messaggio deve essere più ampio».


In che senso?
«La riforma non dev’essere uno strumento per fare cassa, ma un impegno dell’Italia a mettere in ordine i conti pensionistici di domani, sostenendo la riorganizzazione del welfare, concorrendo a consolidare il bilancio pubblico e con effetti positivi sui tassi di interesse delle emissioni di debito pubblico».

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