È fantastico quello che ha detto ieri Giancarlo Caselli, procuratore generale di Torino. Mentre tutta Italia era sbigottita per quanto è successo a Siena, Caselli ha detto che «le polemiche sono inevitabili e giuste», ci mancherebbe: ma, ha aggiunto, è «ingiusto prendere a pretesto il caso Piancone per scagliarsi contro la magistratura».
Oh bella: polemiche sì, ma non contro i magistrati. E con chi prendersela, allora, se un giudice di sorveglianza ritiene recuperato un brigatista non pentito che poi va in giro a fare rapine? Uno che ne aveva già stesi sei e che martedì non ha ammazzato per la settima volta solo perché quando stava sparando in faccia a un poliziotto gli si è inceppata la pistola? Uno talmente redento che non fa il nome del complice perché «non sono mica un infame»? Ma certo che non è un infame: è un assassino, però. Non pentito e soprattutto non abbastanza punito. Chi l’ha lasciato libero ha sbagliato.
Conosciamo bene l’obiezione: il magistrato ha solo applicato la legge; quindi se colpa c’è, è della legge. È il solito ritornello. Lo abbiamo sentito questa estate per la vicenda di Sanremo, dove un gentleman fortemente indagato di avere ucciso una ragazza è stato lasciato libero di accopparne un’altra. Lo abbiamo risentito pochi giorni dopo quando, mentre l’Italia bruciava, un pm ha mandato a casa un piromane beccato con diciassette inneschi sul luogo del misfatto. Nuovamente lo abbiamo udito la scorsa settimana, quando un uxoricida se l’è cavata con due-giorni-due di galera. Ho scritto giorni, non anni e non mesi: giorni. Due giorni.
È il solito ritornello, dicevo: ma è una balla che chiunque abbia un minimo di conoscenza del diritto può smascherare, ben sapendo che in Italia è consentito al giudice un ampio potere discrezionale nell’interpretazione delle leggi. Caselli ha ragione, perfettamente ragione quando ricorda - come ha ricordato ieri - che la magistratura sotto accusa «è anche quella che le Br ha contribuito a sconfiggerle, lavorando duro insieme a poliziotti e carabinieri». Certo che ha contribuito a sconfiggerle: anzi, aggiungiamo noi, spesso i magistrati hanno pagato con la vita. Lo stesso Caselli è uno che ci ha rimesso del suo, costretto com’è stato a condurre un’esistenza da blindato. E per questo di fronte a Caselli e ai magistrati come lui noi ci leviamo il cappello.
Ma il discorso è un altro. Nessuno vuole generalizzare e mettere tutti i magistrati sul banco degli imputati. Si chiede una cosa molto più semplice: si chiede che chi sbaglia paghi anche se porta la toga. E questo in Italia non succede. Non è successo ai giudici che hanno mandato in galera Tortora innocente, non è successo al sostituto procuratore dei minori che accusò un povero papà di avere sodomizzato una bambina che invece non era stata sodomizzata da nessuno, aveva soltanto un cancro, e di quello morì. Non solo non pagarono, quei magistrati: furono anche promossi per anzianità. E sono solo due esempi tra gli infiniti.
In Italia si entra in magistratura per concorso pubblico e poi si può stare tranquilli qualsiasi fesseria si combini, tanto si è giudicati dall’«organo di autocontrollo», e se qualche giornalista osa criticare viene prima denunciato e poi giudicato dal collega del suo denunciante.
Adesso, per la vicenda del brigatista Piancone, non si aspetta neanche il momento della querela e poi del risarcimento danni (naturalmente a favore del giudice): si vuole il silenziatore preventivo alle critiche. Caselli, per capirci, non è solo il Procuratore di Torino: è un’autorità, la sua parola sta alla magistratura come quella di un cardinale sta alla Chiesa, o come quella di Bobbio stava alla cultura laica. E la parola di Caselli ieri è stata un mettere subito i puntini sulle i: giù le mani dalla categoria.
A Caselli ci permettiamo di suggerire due cose.
La prima è che la difesa in blocco di chiunque porti la toga - così come l’intoccabile sistema della carriera per anzianità e non per meriti - danneggia non solo i cittadini ma anche quei magistrati che il terrorismo e la criminalità l’hanno combattuta davvero, e rischiando la pelle.
La seconda ha a che fare con una parola molto di moda di questi tempi: la «casta». È un etichetta appiccicata in blocco a tutti i politici, e non senza ragioni, perché la spudoratezza dei politici tocca a volte vertici incommensurabili. Ma almeno i politici rispondono ogni cinque anni, o ancor meno, agli elettori; e sui giornali vengono criticati un giorno sì e l’altro pure.
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