Intuizioni e infortuni di Camilla Cederna, ottima salottiera e pessima «tricoteuse»

Non vorrei io aver l’aria di opporre, al ricordo elogiativo di Ranieri Polese sul Corriere della Sera di ieri, un ritratto negativo e acre di Camilla Cederna. Me lo imopedirebbero tante personali vicende e amicizie. Del fratello Antonio sono stato compagno di classe nelle Elementari di via Spiga e nel liceo Parini a Milano, con Camilla ho avuto un rapporto affettuoso sia in giovinezza, sia quand’era già un’affermata star della scena giornalistica. Il compimento dei cent’anni dalla nascita di Camilla - 21 gennaio 1911 - esige senza dubbio che si riparli di lei. Anche se oggi il “costume”, che fu a lungo il suo habitat professionale, è diventato gossip, e gli specialisti e specialiste del genere imperversano dai teleschermi.
Ma proprio per il suo talento la Cederna merita che di lei ci si occupi con franchezza. Per dire che fu insuperabile nel graffiare, con una penna acuminata, i vezzi e i vizi dei salotti borghesi. Nei quali, per nascita e per scelta, si muoveva perfettamente a suo agio. Seppe insolentire con grazia i ricchi e i potenti che le tributarono omaggi rasentanti il masochismo. Ma a un certo punto sopravvenne in lei una deriva sia professionale sia politica che cancellò il merletto - per usare un termine di Indro Montanelli - nel quale era bravissima, facendone invece in più occasioni una tricoteuse pronta a chiedere se non la ghigliottina, certo la gogna di qualcuno. Lo fece per la strage di piazza Fontana, schierandosi con Valpreda - il che era comprensibile e anche ragionevole - ma imputando agli investigatori il bieco proposito di incriminare consapevolmente un innocente, e questo era troppo. Anche se Valpreda non c’entrava con la strage, si può capire che essendo lui uno sfegatato anarchico, ed essendo gli anarchici specializzati in bombe, dopo una bomba si indagasse da quella parte.
Non la riconoscevo più, nel nuovo ruolo di polemista munita di mazza ferrata anziché di fioretto, la Cederna ironica d’un tempo. Si buttava all’avanguardia in ogni nuova causa che potesse coinvolgere e travolgere le forze dell’ordine. Quando, il 15 marzo 1972, Giangiacomo Feltrinelli fu dilaniato dall’esplosivo che voleva collocare su un traliccio a Segrate, Camilla non ebbe dubbi nel sottoscrivere un manifesto di intellettuali che perentoriamente affermava: «Giangiacomo Feltrinelli è stato assassinato... La criminale provocazione, il mostruoso assassinio sono la risposta della reazione internazionale allo smascheramento della strage di Stato».
Troppo banale questa prosa (c’è perfino la reazione, ovviamente in agguato) per essere di pugno della Cederna. Ma essendo stata ventilata l’incriminazione di chi aveva firmato il manifesto, Camilla si mosse in aiuto, sull’Espresso: «Ciò che stupisce di più è che fin dal primo momento l’inchiesta è stata condotta da polizia, carabinieri, agenti dei servizi segreti... Ancor più sorprendente è che a dirigere le indagini sia il solito staff dell’ufficio politico della questura di Milano, Allegri e Calabresi in testa con tutti i loro soci dietro», Già, Calabresi: che non fu soltanto, come sappiamo, un bersaglio polemico.
Nel 1978 la Cederna pubblicò un libro, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, che stroncò il percorso politico del biografato - ritiratosi dal Quirinale con anticipo sulla scadenza del mandato - e che le valse una condanna per diffamazione in tutti i gradi di giudizio. Aveva scritto cose non vere. Se si fosse limitata - com’era nella vera vocazione di “merlettaia” - a descrivere, e la descrisse benissimo, l’atmosfera un po’ scapigliata della presidenza leonina, sarebbe stata divertente e ineccepibile. Volle che il quadro d’ambiente fosse un’inchiesta, e in quello sbagliò.


Adesso, nella Bur Rizzoli e con il titolo Il mio Novecento, Camilla Cederna ritorna in libreria. Non ho visto il volume, un’antologia degli scritti apparsi sull’Espresso. Spero di ritrovare in quelle pagine anche e soprattutto la salottiera che incantò tanti prima di cedere il posto alla barricadiera.

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