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Investimenti addio e salari al minimo. Nordest pro-Brexit pronto al peggio

Viaggio nell'Inghilterra che nel 2016 votò in massa per dire addio all'Unione europea Ora però, a tre mesi dal divorzio, il No Deal fa paura: quest'area sarebbe la più colpita

Investimenti addio e salari al minimo. Nordest pro-Brexit pronto al peggio

Newcastle

Come il tacchino che vota per il Natale, like turkey voting for Christmas. È una metafora che gli inglesi usano per definire scelte suicide, contro i propri interessi. Viene fatta risalire a fine anni Settanta, quando il liberale David Penhaligon la usò per la prima volta per schierarsi contro il Lib-Lab Pact, l'intesa tra i partiti Liberal e Labour da associare alla disperata mossa del pennuto che segna il proprio destino. E si consegna, immancabile, alla tipica cena di Natale nel Regno Unito. Di recente l'espressione è tornata di moda tra chi vuole sintetizzare il voto nettamente a favore della Brexit di una delle regioni che un tempo trainava l'Inghilterra, quel Nordest così distante da Londra e così vicino alla Scozia, dove l'epoca florida delle industrie e delle miniere ha iniziato a evaporare dagli anni Ottanta e il colpo di grazia l'ha rifilato la crisi esplosa nel 2008. Qui scegliere in massa il Leave è stato un gesto di protesta, espressione di un livore sociale verso i burocrati di Bruxelles e l'establishment. Il mantra di molti rispecchia le percentuali del referendum del 2016, dove in alcune aree la percentuale per andarsene si è avvicinata al 70% e tutti i centri principali hanno voltato le spalle all'Europa, da Sunderland (61.3%) a Darlington (57.5%), passando per il 65.5% di Middlesbrough e il 69,6% di Hartlepool. In parte, fa eccezione soltanto Newcastle con il Remain che l'ha spuntata di poco (50,7%).

Così questa fetta di Regno Unito si è guadagnata l'appellativo di Brexit Central, ma ora che il 31 ottobre si fa sempre più vicino, e con lui anche l'addio ufficiale all'Ue, la notte di Halloween fa più paura della cena di Natale per un tacchino. Soprattutto in caso di No Deal, il Nordest sarebbe la zona dell'Inghilterra più colpita, come rivelato da uno studio condotto dalla Commissione per la Brexit presso la House of Commons: tra le nove macroregioni inglesi, questa esporta più beni pro capite verso l'Europa e allo stesso tempo riceve massicci fondi comunitari per uscire dalla depressione causata dal declino dell'industria pesante, alla stregua delle Welsh valleys o delle aree più rurali, come Lincolnshire e Cornovaglia. Tra le altre cose, con questi fondi nell'ultimo decennio è stata rigenerata l'area dei ponti avveniristici sul Tyne di Newcastle, nota come Quayside; è nato un incubatore di sviluppo digitale come il Software Centre di Sunderland; è stato rinvigorito il lungomare di Redcar, affacciato sul Mare del Nord. «Ma la gente sembra abbia dimenticato tutto» afferma Debbie, insegnante di mezza età in una scuola di Middlesbrough «l'Ue viene dipinta come l'orco cattivo, causa di tutti i mali, in realtà la crisi dell'ultimo decennio ha prodotto tagli ai salari, riduzioni per il welfare e indebolito l'economia. Le aree deindustrializzate e le zone costiere sono in sofferenza, nel Nordest il 25% dei lavoratori è impegnato nel settore pubblico, i tagli alla collettività fanno male il doppio. E chissà se a Brexit compiuta il nostro governo saprà sopperire alla perdita dei fondi europei».

Il North East ha la più alta percentuale di salari minimi del Regno Unito, ora in molti temono che per effetto del Leave un'economia così vulnerabile tenda al collasso, di fronte ai ridotti investimenti delle aziende internazionali e al mancato accesso al libero scambio sui mercati. Sarebbe il colpo di grazia per le poche industrie rimaste, operanti nel settore automobilistico, farmaceutico e petrolchimico, che rischiano di fare la fine di un patrimonio industriale già disperso, fatto per tutto il Novecento di miniere di carbone, cantieri navali e vaste produzioni di ferro e acciaio. Nel Teesside, la fetta sud del Nordest, il panorama si compone ancora di fabbriche in disuso, docks in rovina e grovigli di tubi arrugginiti, che rimandano a epoche ben più prolifiche, ma rappresentano anche lo stato di abbandono dell'ultimo trentennio.

In fin dei conti non è tanto diverso da quando nei dintorni, nel 1987, venne in visita Margaret Thatcher e si parlò di walk in the wilderness, camminata in una landa desolata, fatta già a quel tempo di opifici dismessi e lavoratori mandati a casa. Votare per oltre il 70% a favore della Brexit, come hanno fatto qui, è una reazione disperata, la mossa di chi non ha più nulla da perdere e aspetta da sempre che qualcosa cambi. Evan viene da Easington, piccolo centro nella contea di Durham «praticamente in ginocchio dopo la chiusura della miniera di carbone negli anni Novanta». E con rabbia afferma: «La gente è stanca di chi governa, hanno sradicato tutto il patrimonio che ha fatto ricco il Nordest per oltre un secolo. C'è poco lavoro, il servizio sanitario nazionale non è più quello di una volta e i trasporti sono ridicoli. Costa meno andare a Roma in aereo che in treno a Londra!».

Restando sulla costa, ma risalendo tutta la regione lo scenario di certo non cambia e a Sunderland, sulle rive del Wear, del passato ne hanno fatto addirittura un cimitero. Nella centrale Keel Square, hanno scolpito i nomi delle 8200 imbarcazioni costruite nei 400 cantieri navali che un tempo popolavano la città: una per una, incise su una pavimentazione di granito, come una lapide gigantesca. Le scritte coprono quasi trecento metri di superficie, tanto quanto misurava la Naess Crusader, la nave più grande mai costruita in città. Era il 1972 ed è stato il periodo più florido di sempre.

Oggi l'ombra della Brexit incombe sul Nordest, non solo per chi ci vive, ma anche per chi deve investire, tanto che il protrarsi dell'incertezza ha messo in fuga i soldoni della Nissan, casa automobilistica il cui polo produttivo principale in Europa si trova da un trentennio proprio a Sunderland. I giapponesi hanno fatto cessare la produzione dei modelli Infiniti, il marchio di lusso di riferimento, e hanno già avvertito che il nuovo X-Trail lo faranno produrre altrove e non più nel Nordest inglese. I vertici dell'azienda hanno poi annunciato licenziamenti a livello globale e i lavoratori locali si sentono minacciati visto che nell'impianto di Sunderland sono impegnati 7 mila operai, che salgono a oltre 25 mila considerando fornitori e indotto. Uno di loro preferisce restare anonimo, ma fa filtrare una paura collettiva: «La Nissan è una delle poche certezze rimaste al North East, ora con la Brexit vacilla anche questa. Parliamo della fabbrica di automobili più grande in tutto il Regno Unito, esportiamo in Europa la metà delle macchine prodotte e nel 2018 l'auto elettrica più richiesta è stata la Nissan Leaf, un nostro fiore all'occhiello, con più di 450 mila veicoli venduti. In Giappone puntano forte sulla mobilità sostenibile, ma i nostri governi sono troppo impegnati a evitare di essere inghiottiti dalle sabbie mobili della Brexit». Non è un caso che da Sunderland, sotto la spinta di tutto il Nordest, abbia preso piede la campagna «Let Us Be Heard», per dare ai cittadini la possibilità di esprimersi sullo stallo creatosi attorno alla Brexit. Sono previsti quindici raduni in tutto il Regno Unito, prima di una marcia collettiva il 12 ottobre per le strade di Londra, come spiega Alison, giovane attivista: «Non siamo tutti dei brexiter ostinati, è uno stereotipo di cui siamo stufi. La Brexit è qualcosa di troppo grande, non possono deciderla i 160 mila membri del Conservative Party. Rappresentano lo 0,25% di tutto il Regno Unito, questa decisione spetta ai britannici».

Forse è troppo tardi, quassù qualcuno si sta già preparando al peggio.

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