Milano - Si è infervorata, la poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, in Italia per la presentazione del suo Il ritorno di Lilith (domani con Gad Lerner alle 18 alla Feltrinelli di via Manzoni), quando ieri mattina, in una primaverile e domenicale via Solferino, le ho detto: «Viviamo in un’epoca di enorme libertà, dove uomini e donne possono condurre la vita che vogliono senza doverne rispondere a nessuno. Non è che tutto questo tuo parlare di libertà e diritti femminili traditi serve a eludere la discussione sul vero problema?».
Sgranando i suoi inconfondibili occhi mediorientali, Joumana Haddad - responsabile delle pagine culturali del quotidiano An-Nahar, caporedattrice della ormai leggendaria Jasad, rivista in lingua araba dedicata al corpo e all’erotismo, nonché amministratrice del Premio internazionale per il romanzo arabo - mi ha chiesto: «E quale sarebbe il vero problema?».
Come vivere e amarsi in un mondo senza divieti?
«Purtroppo la libertà di cui parli è illusoria, per le occidentali come per le arabe. In Occidente le donne vivono nell’illusione confortante che le generazioni precedenti alla loro hanno già ottenuto ogni libertà necessaria. Pensano che oggi la strada sia lì, spianata, pronta per camminarci sopra. Questo le spinge a una visione molle del mondo. Sono diventate pigre, incapaci di lotta collettiva e con un’autostima bassa. Non capisco la loro autoindulgenza e mancanza di ambizione. Ci sono delle eccezioni, ma non bastano».
E le donne arabe?
«Crescono in un’illusione diversa, ma simile: credono di non avere la benché minima possibilità di scelta, che tutta la loro vita sia già stata scritta, fin dalla nascita. E anche in questo caso sviluppano una visione molle del mondo. Sto un po’ esagerando, gli stereotipi sono sempre esagerati, ma in entrambi i casi le due illusioni limitano la consapevolezza e quindi la libertà femminile. Alle arabe viene detto: questi sono i nostri valori, devi comportarti così, vestirti così. Alle occidentali viene detto: come sei bella, cerca di non avere neanche una ruga. Be’, sono entrambe sfortunate».
Una sfortuna con cui molte, qui, vanno d’accordo...
«Anche in Libano, che grazie alle numerose influenze culturali è un po’ un’eccezione tra i Paesi arabi. Lì come qui posso vedere donne che vanno ogni giorno in discoteca, fanno il lavoro che vogliono, si vestono come gli pare, scrivono di tutto. Li chiamo regalini “esplosivi”, che distraggono le donne dalla loro vera libertà».
Ma che non sia semplicemente questa, la libertà che infine vogliono?
«Quando una donna mi dice che è felice di portare il burqa oppure felice di umiliare il proprio corpo sui mass media, non ci credo, penso che non sia cosciente di se stessa. Perché questi due casi - il burqa e il tritacarne mediatico - che sono il più diffuso modello visibile dell’essere donna nei due rispettivi mondi, alla fine sono dei modelli negativi. Il trattamento caricaturale che la femminilità subisce sui media occidentali, per esempio, la sta trasformando in un anti-femminilità. È un vero e proprio lavaggio del cervello, simile a quello arabo. La libertà di cui parlo e scrivo è diversa».
È quella del Ritorno di Lilith?
«Quella. La vera domanda è infatti: perché le donne non lottano? La ragione è che i divieti che le bloccano sono molto spesso interiori. È una questione di cultura, ovviamente, ma pure di mancanza di complicità tra i sessi, che qui in Occidente sono arrivati a ignorarsi, a essere indifferenti l’un l’altro. Nel mondo arabo, invece, un sesso esclude l’altro dalla libera vita. Ma nei due casi il risultato sconcertante è questo: né uomini né donne sono più complici».
Come vorrebbe Lilith.
«Ho voluto usare il suo mito per raccontare, e nella forma che più amo fin da bambina, la poesia, tutto questo. Poiché Lilith, nella mitologia mesopotamica poi ripresa da quella ebraica, non è stata creata dalla costola di un uomo, ma insieme a lui. Lilith parte da un’uguaglianza effettiva, che usa per essere complice di un maschio che accetta di essere suo complice. Lilith è un anti-Sharazade».
E tu hai “ucciso” Sharazade...
«Sì, il mio prossimo saggio, si intitola proprio così, Ho ucciso Sharazade, cioè quella eroina letteraria che dice all’uomo: io ti racconto una storia e tu mi lasci vivere. Per me è un simbolo di compromesso. Come quelle donne che pensano: se do a un uomo quello che lui vuole mi lascerà fare ciò che io voglio.
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