Io, in marcia nel 1° maggio senza Fidel

Io, in marcia nel 1° maggio senza Fidel

L’Avana - Siamo qui che siamo in marcia da prima dell’alba, desde los hijos hasta los abuelos, dai bambini ai nonni, dunque, habaneros e cubani arrivati dai quattro angoli dell’isola... L’appuntamento è nella Piazza della Rivoluzione dove alle 8 avrà inizio il Desfile del Primero de Mayo, all’insegna del motto «Más unidos, fuertes y solidarios que nunca», una specie di «boia chi molla» in salsa tropicale. Ai 1.500 pionieri, maschi e femmine, in t-shirt rossa e t-shirt bianca è affidato il servizio d’ordine, perché qui si sfila e non si sosta, è previsto un milione e mezzo di partecipanti ed entro le 10 debbono essere passati tutti davanti alle autorità: dopo il sole picchia e il caldo è oggettivamente reazionario.
Gli altoparlanti funzionano male, cartelli, striscioni, insegne sono rudimentali, pezzi di cartone, aste di legno, lenzuoli bianchi, gli slogan, scritti e gridati, recitano all’unisono le medesime parole d’ordine: libertà per i 5 «eroi e martiri» di Cuba in carcere da nove anni negli Stati Uniti, ludibrio per il «verdugo», il «boia» Posada Carriles, terrorista reo confesso che fa la bella vita a Miami grazie al governo americano...
Anche l’accompagnamento musicale è ripetitivo, nonostante ci sia un’orchestra, un coro e un paio di direttori a darsi il cambio: suona sempre la Marcha del Primero de Mayo, la stessa ormai dal 1961: «Primero de Mayo / Dia del trabajo, / dame tu mano, trabajador / unitos todos codo con codo / ya dirigimos nuestra nacion / Estudio, trabajo, fusil / nuestras armas en la lucha por la paz, / venceremos, venceremos, venceremos. / Unidad, unidad, unidad. / La lucha nos enseña / la táctica mejor, / unidos venceremos / a cualquier agresor». Magari l’anno prossimo li scritturano per il concertone rock di San Giovanni a Roma...
Allegro e colorato il serpentone dei manifestanti scorre ordinato davanti all’obelisco e al monumento a José Martí che sovrastano le autorità e gli ospiti. Ci sono un po’ tutti, dirigenti e ministri, i vertici dei 1.465 delegati sindacali i 47 Paesi fra Europa, Asia, America, Africa e Oceania, ufficiali dell’esercito e della polizia, docenti universitari, attori e intellettuali. Tutti, compreso naturalmente Raul Castro Ruz, capo delle Forze Armate, fratello e delfino di Fidel. Tutti ma non Fidel, El Comandante en Jefe Fidel, El Compañero Fidel... È la prima volta e fa un certo effetto. Non potendo essere presente di persona, ha affidato una «riflessione» di due pagine ai giornali. Dice che ciò che ora serve «es una Revolución Energética», si conclude colla data e l’ora in cui è stata scritta, le 6 e mezzo del pomeriggio del 30 aprile. Un po’ come a sottolineare non sono ancora morto...
Il primo a sfilare è il blocco dei 20.000 «constructores», una via di mezzo fra gli edili e gli ingegneri, poi è il turno dei lavoratori della canna da zucchero di Cienfuegos, che quest’anno hanno migliorato la produzione dell’anno precedente del «bloque» dei medici, degli sportivi, degli agricoltori, degli insegnanti. Poi il Comitados de Defensa Revolucionario, i Cederisti, i Guardiani della Rivoluzione, insomma. Sono tanti.
Tanti «guardiani» possono voler dire che la Rivoluzione è ancora e sempre minacciata, oppure che tutti i cubani sono rivoluzionari o, più semplicemente, che rivoluzione fa rima con nazione, ovvero che «giusto o sbagliato è il mio Paese»... Mezzo secolo di regime significa che i cubani nati ante-Castro ragazzini al tempo della caduta di Batista hanno oggi sessant’anni, e fra i settanta e gli ottanta se più grandi. Fra gli esuli di Miami, la maggioranza è di seconda generazione: Cuba loro non l’hanno mai vista e non è detto che, un domani, smanierebbero all’idea di vederla...
Al termine della sfilata faccio un salto al Museo Alejandro de Humboldt nell’Avana vecchia. Grazie al contributo dell’Unesco, alle facilitazioni sul turismo, all’apertura ad iniziative private e al petrolio venezuelano del presidente Chavez, il quartiere sta recuperando parte dell’antico splendore, ma questo rende il contrasto fra passato e presente ancora più stridente. Il primo rimane radicato, stabili fatiscenti, sporcizia, miseria, e il secondo è di facciata: antiche dimore trasformate in alberghi, ristoranti, negozi, banche e edifici pubblici, ma non in case abitazioni private. Al Museo fa bella mostra di sé la replica di un dinosauro di 5 metri di altezza e dodici di larghezza ritrovato nel 2001 da paleontologi messicani nel deserto di Coahuila. Castro è come quel dinosauro, solo che è un originale e non una copia, un dinosauro immerso nella sua era, alla sua era sopravvissuto. Politicamente a Cuba non c’è il comunismo di Fidel ma il fidelismo del comunismo. Castro è stato ed è un caudillo latino-americano che si servì del comunismo inteso come alleanza coll’Urss, per rafforzare e mantenere il potere. Era un’alleanza per certi versi obbligata, non tanto non solo dalle circostanze internazionali, ma soprattutto perché una partnership di quel genere era l’unica che potesse far fronte alla incapacità economica da un lato, al pericolo di una contestazione politica dall’altro. «Il costo economico della Cuba castrista», ha scritto Carlos Franqui, nell’autobiografico Cuba, la rivoluzione: mito o realtà?, «era mostruoso ma Cuba era il cavallo di Troia del comunismo in America Latina, in Africa e nel Terzo mondo, sosteneva il movimenti di guerriglia le guerre africane e costituiva una formidabile piattaforma militare e spionistica a novanta miglia dal territorio degli Stati Uniti. La vita era austera ma non insopportabile. Dal punto di vista materiale il crollo del sistema sovietico ha privato i cubani di tutto». Per chi nel 1959 aveva ereditato un’economia solida, come Castro stesso si era vantato dicendo di aver fatto «una rivoluzione senza esercito, contro l’esercito, in assenza di una crisi economica» non è un bel risultato.
Quello che oggi resta è una gerontocrazia al potere, età media 75 anni, una crisi profonda quanto irreversibile del sistema, l’ipotesi di una «via cinese», ma anche quella di una seconda Haiti, un malcontento generale, ma anche una apatia, l’aver fame di tutto, ma non credere in niente, la vita come diffidenza.
Non è un caso che in quella che è stata chiamata la «narrativa del disincanto», ovvero la Cuba narrata dagli scrittori cubani che a Cuba sono rimasti, non se ne sono andati, ad emergere è un’isola colta nella sua glaciazione politica ed ebollizione umana: emarginati, prostitute, arrivisti, mendicanti, emigranti (balseros che se ne vanno e gusanos che ritornano), pazzi, drogati e soprattutto omosessuali (di ogni sesso e tendenza), quasi tutti segnati da scetticismo, scoramento, e a volte dallo squallore più amaro...
La rivoluzione, insomma, è andata a fondo e ciò che rimane a galla sono i relitti del sistema da un lato naufraghi dal fallimento dall’altro. Chi si aggrappa ai primi difende lo status quo, non un’idea, chi nuota fra i secondi si preoccupa semplicemente di non affogare. Ciò rende impossibile qualsiasi relazione che vada al di là di una semplice constatazione dei rapporti di forza: chi ancora detiene il controllo ha smesso da tempo di credere nell’indottrinamento, nella convinzione e nell’esempio come arma del consenso, chi ne è succube è consapevole che è comunque il tempo a lavorare in suo favore e si accontenta di durare: sopravvivere è il suo modo di combattere.
Via via, dunque, che l’attualità da raccontare si rivela sempre più privata e sempre meno pubblica, ovvero si finisce per considerare la res publica come un altro da sé reale ma non essenziale, l’orizzonte intellettuale si restringe, si fa narcisistico-individuale, non riesce più a essere costitutivo di un’epoca, di una società, di una classe sociale. Negli anni Sessanta, quando Cuba era ancora un esempio e per certi versi un modello, lo scrittore Alejo Carpentier aveva osservato che «nella maggior parte dei romanzi di Balzac i personaggi sono tutti segnati dagli eventi della loro epoca. Tutti vivono in funzione di qualcosa che è accaduto: la rivoluzione, il crollo dell’impero, la restaurazione della monarchia, i fermenti rivoluzionari». Quarant’anni dopo questa sorta di balzacchismo fatto di illusioni perdute, illusioni disattese, illusioni rubate, illusioni sbagliate, ha lasciato il posto all’assenza più che alla fine delle illusioni stesse, ciò che resta è l’accettazione di una sorta di limbo contemporaneo in cui rifarsi al passato è impossibile, criticare il presente è vietato, sognare un futuro velleitario e in fondo inutile, perché non c’è nulla su cui farlo poggiare.


«Ti è piaciuta la manifestazione?» chiedo a un collega cubano a cui offro un Daiquirì al Floridita, seduti fianco a fianco alla statua in bronzo di Hemingway che sovrasta in un angolo il bancone del bar. «Mi sono piaciute soprattutto le rappresentanti del bloque dell’Istruzione, con le loro gonnelline abbottonate di lato... ». «Be’ siete o non siete il paradiso dei lavoratori?»...
Stenio Solinas

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