La sua guardia del corpo, Man, è un ex khmer rosso. Eppure nel 1994 a Kampot, davanti a casa, Davide Cattaneo vide uccidere dai khmer rossi gli ultimi tre ostaggi occidentali, un britannico, un francese e un australiano convinti che la mattanza in Cambogia fosse finita, che col ritorno della monarchia anche lordine regnasse sovrano e si potesse andare al mare in treno sul golfo del Siam, e invece furono rapiti, legati luno allaltro e maciullati a colpi di zappa. Eppure il padre di sua moglie Sophal fu massacrato dai guerriglieri del dittatore Pol Pot col medesimo sistema, perché a quel tempo, dal 1975 al 1979, il tempo del genocidio di due milioni di cambogiani, la vita di un negoziante non valeva neppure il prezzo di una pallottola.
È una contraddizione vivente questo monzese cinquantenne che abita tra Phnom Penh e Kampot e che torna qualche volta nella sua baita di Madesimo, in Val Chiavenna. Inseguito per lungo tempo dalla giustizia italiana come un pericoloso terrorista, costretto alla latitanza allestero dal 1976 al 1990, condannato a 12 anni in contumacia e infine graziato dal presidente della Repubblica («fu lultimo atto di Francesco Cossiga: il suo predecessore, Sandro Pertini, sera sempre rifiutato di firmare la domanda presentata da mia madre»), doveva capitare proprio a lui, un neofascista accusato daver tentato di costituire le Brigate nere, di finire nel Paese più rosso del pianeta, dovè stato lunico occidentale testimone della carneficina, lunico in contatto con i feroci khmer, lunico ad aver visto il cadavere di Pol Pot e oggi lunico con la tessera di giornalista rilasciata dal ministro dellInformazione del regno di Cambogia.
Di uno così, che parla correttamente otto lingue comprese khmer, lao, thai, cinese mandarino e ha prodotto documentari per il National Geographic e Discovery channel, si potrebbe dire che lIndocina ce labbia nel sangue. Cattaneo, che nelle vene ha comunque avuto per lungo tempo il plasmodio della malaria buscata laggiù, ce lha addirittura nella carne, sotto forma di una scheggia di granata conficcata nel collo («impossibile rimuoverla chirurgicamente: troppo vicina alla carotide»), souvenir dei tre anni trascorsi in Birmania ad addestrare i karen in rivolta contro il governo centrale socialista.
Cè voluta una scorza ancora più dura per comprare legname dai khmer rossi («a Kampot avevo aperto una segheria, ora lho trasformata in albergo») e galleggiare in quellimmensa Auschwitz che fu la Cambogia di Pol Pot, un sadico compromesso fra Hitler, Stalin e Mao. «Lintera popolazione fu deportata nelle risaie e costretta senza eccezioni a indossare una casacca nera abbottonata fino al collo. I matrimoni furono vietati e così pure qualsiasi manifestazione pubblica di tenerezza. Vennero distrutti i beni di consumo occidentali, dalle auto agli elettrodomestici. Furono bruciati i libri, chiuse le scuole, distrutti i negozi, soppressi il telefono e le poste, abolita la moneta. Il lavoro nei campi cominciava alle 4 del mattino e terminava alle 18. In cambio si aveva diritto due volte al giorno a una minestra di acqua e riso. Alle famiglie era vietato cucinare in proprio, il cibo si preparava e si consumava nelle mense collettive. Ogni dieci giorni lavorativi scattava il diritto a uno di riposo, da dedicare però interamente allindottrinamento di gruppo. Chi non sadattava veniva marchiato come borghese. Tutti quelli che avevano studiato furono eliminati. Condanna a morte anche per coloro che venivano trovati in possesso di matite o intenti a scrivere senza lautorizzazione dei superiori. Pol Pot vietò persino luso degli occhiali da vista: non essendo necessari per coltivare il riso, chi li possedeva non poteva che essere un pericoloso intellettuale».
Ma come fa uno di destra a scegliere di vivere in un mattatoio comunista?
«È una storia lunga. A 14 anni miscrivo alla Giovane Italia. Al liceo scientifico mi oppongo agli scioperi studenteschi organizzati dai compagni. Mica per altro: cresciuto, come mio nonno e come mio padre, nel collegio dei Barnabiti di Lodi dove sindossava la divisa militare con lo spadino, ci tenevo a studiare. Con altri sei amici mi sono ritrovato a un bivio: o un brutto processo o un bel funerale».
Non starà esagerando?
«I rossi avevano scritto sui muri che ci avrebbero ucciso. Mi scambiarono per un mio coetaneo, che aveva i capelli lunghi e biondi come me. Lo sprangarono. Sei mesi dospedale. Ha ancor oggi i buchi nella testa e i vuoti di memoria. In due decidemmo di armarci. Fummo gli unici a restare incolumi».
E i suoi potenziali aggressori come facevano a sapere che lei girava armato?
«Glielho notificato. Un giorno ce nerano cinque che maspettavano sotto casa accucciati dentro unauto. Mavvicino e picchio con la canna della pistola sul finestrino. Venite fuori, gli intimo. Poi comincio a sparare in aria. Fuggifuggi. Risultato: arresto per porto darmi e detenzione di materiale esplosivo. Due mesi in galera a Monza. Trasferito nel carcere minorile Beccaria di Milano, sono evaso dopo 15 giorni. Non avevo ancora compiuto 18 anni. Ne ho passati altrettanti da ricercato».
Dove riparò?
«A Parigi. E di lì, 48 ore dopo, a Bangkok, dove viveva la sorella della mia fidanzata. Mi sono iscritto a un corso di thailandese e ho avuto la residenza per motivi di studio. In seguito ho accettato di lavorare come cartografo nella Guyana francese per conto del Bureau de recherches géologiques et minières di Parigi. Lelicottero mi lasciava da solo a cercare loro nella foresta tra gli indios amazzonici e tornava dopo tre settimane a riprendermi. Basta aver letto Papillon per capire di che posto si trattasse. Nella Guyana ho sposato una parigina che mi ha dato un figlio. Così sono diventato cittadino francese. Non dimenticherò mai le parole del giudice creolo nero che mi convocò a Saint-Laurent du Maroni: Questi fonogrammi giunti dallItalia sostengono che lei è ricercato per ricostituzione del partito fascista e banda armata. So che qui fa uno dei lavori più duri ed è apprezzato da tutti. A me del suo passato non importa nulla. Eccole il passaporto, benvenuto in Francia».
E perché non si fermò lì?
«Volevo diventare ingegnere minerario. Tornai a Parigi per iscrivermi allÉcole des mines. Sei mesi dopo mia moglie arrivò dalla Guyana e mi mise in braccio nostro figlio di appena un anno: Io non me ne occupo più. Non potendo rientrare in Italia, dove mavrebbero arrestato, andai in Svizzera e da Saint-Moritz telefonai alla mia vecchia balia che abitava a Madesimo. Lei attraversò il confine, se lo prese fra le braccia e mi disse: Al bambino ci penso io». (Si commuove).
Di quali reati si riconosce colpevole?
«Di nessuno. Non ho versato una sola goccia di sangue e non ho mai rubato una lira. Mi sono solo difeso».
Come mai andò a vivere in Cambogia?
«Per lutto. Era morta mia moglie e, anche se non stavamo più insieme da ormai cinque anni, per me fu un colpo durissimo. Scelsi la Cambogia perché è assolutamente vergine. E poi volevo capire i meccanismi perversi dellideologia. La prima volta che avevo visto i morti viventi sfuggiti ai khmer rossi fu nei campi profughi, tra il 76 e il 77, quando conobbi Tiziano Terzani».
Quale percezione ha del nostro Paese un italiano che vive in Estremo Oriente e torna qui di tanto in tanto?
«Di un Paese ripiegato su stesso, di una piccola provincia dellEuropa. Voi pensate che laggiù sappiano distinguere fra italiani, inglesi, francesi e tedeschi. Pura follia. Per loro il mondo si divide in bianchi, asiatici, neri africani e arabi. Stop. Le singole nazionalità non contano nulla. Al massimo ti possono assimilare agli americani».
Come si vive oggi in Cambogia?
«È un Paese di fantasmi».
È un Paese libero?
«Per essere liberi bisogna conoscere la verità, altrimenti si è schiavi della menzogna. La Cambogia non ha mai fatto i conti col proprio passato. È un Paese senza storia».
Come fece a cadere nelle mani dei khmer rossi?
«La zia di Pol Pot era prima ballerina del balletto reale. Il futuro dittatore fu allevato a palazzo. Si metta nei panni di un ragazzino di 12 anni stordito da una musica dodecafonica celestiale, fra centinaia di vergini che danzano sinuose. Esce per strada trasognato e che cosa vede? Che gli unici ricchi sono i cinesi e che la politica è controllata dai francesi, i quali si servono dei vietnamiti come funzionari subalterni. Diventato perito elettronico, questo sempliciotto vince una borsa di studio e va Parigi, dove viene indottrinato da intellettuali marxisti. Lo mandano in viaggio premio in Jugoslavia a vedere i campi di lavoro organizzati dal maresciallo Tito. Quando rimpatria, sogna una Cambogia rivoluzionaria. Assume come dato di fatto che la storia si scrive col sangue e che lui è un motore della storia».
Alla testa dei contadini analfabeti.
«I khmer rossi non sapevano niente di Marx. Per loro i nemici erano quelli che abitavano in città e parlavano o francese, o cinese o vietnamita. Termini marxiani quali capitalismo e borghesia non avevano alcun senso, erano intraducibili in lingua khmer: come dirgli di distruggere il Milan e lInter. Tuttora non esistono testi su cui imparare a leggere e a scrivere in cambogiano. Dunque chi sapeva leggere e scrivere non poteva che essere o un francese, o un cinese o un vietnamita, cioè un nemico. Per Pol Pot la civiltà si formava nel riso. Tutto ciò che era città rappresentava surplus e sfruttamento del popolo. Sophal, la mia seconda moglie, fu deportata solo perché abitava a Phnom Penh».
Quanti anni aveva?
«Cinque non ancora compiuti. È nata nel 71. La capitale fu divisa in quattro spicchi e i suoi abitanti sfollati in direzione dei punti cardinali. Bastava abitare nella strada appena oltre una linea immaginaria e si veniva separati per sempre da parenti e amici. La sua famiglia, padre, madre e quattro figli, viveva nella zona meridionale di Phnom Penh, perciò fu esiliata nelle risaie 250 chilometri a Sud. Levacuazione della capitale non durò più di 24 ore. I malati furono stanati dagli ospedali con i lanciagranate. Quelli che non potevano camminare restarono sotto le macerie. Il padre di Sophal era un cinese proprietario di due farmacie. Per salvarsi aveva dichiarato dessere un tassista. Sei un capitalista!, gli dissero. Lui negò. Fecero inginocchiare tutta la famiglia. Presero per i piedi il figlio più piccolo, due anni, e gli sbatterono la testa contro un pilastro, aprendogliela in due come un cocomero. Poi afferrarono Sophal per ucciderla nello stesso modo. A quel punto il padre urlò: No, no, è vero, sono un farmacista. Lo ammazzarono a badilate».
Sconvolgente.
«La bambina fu rinchiusa in un campo di lavoro. Rivide quello che restava della sua famiglia dopo 15 anni. Fuggì da quel lager sotto lincalzare dellinvasione vietnamita. Siccome i terreni circostanti erano minati, sincamminò sui binari del treno. Ma lungo la massicciata i vietnamiti avevano adagiato le salme dei loro compagni morti nei combattimenti, in modo da recuperarle in un secondo tempo. Sophal è uscita dalla rivoluzione camminando su un mare di cadaveri. Ancora adesso quando passiamo da quel luogo perde il controllo di sé...». (Va in unaltra stanza e scoppia a piangere).
Un regime dispotico che si reggeva sul terrore ma anche sulla delazione.
«Gli informatori più zelanti dei khmer rossi erano i chhlop, bambini affamati di non più di 10 anni che tradivano i familiari per un pugno di riso e poi vagavano come reietti, di villaggio in villaggio, acquattandosi di sera sotto le palafitte per origliare le conversazioni».
Lei come ha fatto a non finire nel tritacarne?
«Io ero la gallina dalle uova doro. Non si uccide la gallina dalle uova doro. In Cambogia acquistavo il legname, soprattutto palissandro, per la segheria che avevo aperto sul confine col Laos. Lo pagavo in riso. Pol Pot fu scacciato nel 79 ma da Nord continuò la guerriglia fino al 94. Ho visto i superstiti tornare dai campi di lavoro forzato portandosi nelle case di Phnom Penh chi un maiale chi una mucca: li tenevano al sesto piano o sui tetti».
Avrebbe potuto salvare la vita a qualche prigioniero?
«Ho dovuto trattare col comandante Chouk Rinn, tuttora ricercato per lassassinio degli ultimi tre ostaggi occidentali. Ma sono riuscito a prendere con me solo un piccolo orfano che stava morendo di Tbc. Oggi è undicenne. Lho adottato. Da Sophal ho avuto anche un altro figlio. Ha 5 anni».
Perché non cè stata una Norimberga cambogiana?
«Ieng Sary, che con Pol Pot aveva studiato Robespierre, Marx e Lenin a Parigi, ha mantenuto il suo seggio allOnu dal 75 all87. Lo sapeva questo? Dodici anni! Ed era uno degli organizzatori del genocidio. Il processo internazionale, quando si farà e se mai si farà, vedrà alla sbarra appena cinque imputati. Fra loro non siederà il generale Sam Bith, che in ossequio a una credenza tribale faceva sgozzare le ragazze incinte per mummificare il feto e appenderselo al collo. Se questa è giustizia...».
Che differenza cè fra Pol Pot e Hitler?
«Nessuna. Hitler, Pol Pot, Osama Bin Laden... Sono uomini che sposano le ideologie per sentirsi degli dei. Ma quando luomo si crede Dio, cade nella barbarie. Al di là del bene e del male cè solo lorrore».
Comè morto Pol Pot?
«Secondo me fu avvelenato. I khmer seguono lanno lunare. Il dittatore morì esattamente alla mezzanotte del capodanno lunare del 98, quando tutti i cambogiani guardano il cielo nella speranza che lanno vecchio si porti via tutte le cose brutte. Dunque una fine simbolica. I cinesi lo consideravano un testimone scomodo. Tenga conto che cera ancora un consigliere del governo di Pechino al suo fianco. Pol Pot era stato offerto al miglior offerente: un aereo militare degli Stati Uniti era fermo a Bangkok in attesa che il criminale fosse estradato in Thailandia».
E lei lo vide morto.
«Sì, fui portato sul luogo in elicottero dal responsabile cambogiano dellagenzia France Presse, che era mio amico. Conoscevo una delle guardie: mimpedì di avvicinarmi alla salma per controllare se presentava ferite. In compenso gli sbatté un blocco di ghiaccio sul petto, si udì il crac delle costole rotte. Unora dopo il cadavere fu adagiato su quattro pneumatici e bruciato. Come disse Ta Moch, che pure era stato uno dei suoi luogotenenti, morendo Pol Pot ha reso il più grande servizio al popolo khmer: è diventato concime per i campi».
Una nemesi: nella capitale fantasma il dittatore aveva fatto piantare centinaia di palme che erano cresciute rigogliose sui cadaveri.
«Sino agli Anni 80 nessun cambogiano se lè sentita di sradicarle: i morti erano dentro quelle piante e tagliarle avrebbe significato tagliare le loro anime. La Cambogia è unimmensa fossa comune. Ancor oggi, passeggiando sulla spiaggia di Kampot, la sabbia restituisce femori e teschi».
Quelli che non sono stati impilati nelle piramidi del museo-sacrario di Tuol Sleng.
«Sorge vicino alla mia casa di Phnom Penh. Era una scuola. Fu trasformata in una centrale di sevizie. Dopo gli interrogatori, le vittime designate venivano fotografate con un numero sul petto: a quel punto era come se fossero già morte, e loro lo sapevano bene.
Che cosha capito?
«Glielavevano appuntato nella carne con una spilla da balia».
(311. Continua)
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